L'Apokolokýntosis (Ἀποκολοκύντωσις in greco), Apocolocyntosis o Ludus de morte Claudii o ancora Divi Claudii apotheosis per saturam (traduzione italiana: Satira sulla morte di Claudio), è l'unico testo di carattere satirico attribuito a Lucio Anneo Seneca.
Ludus de morte Claudii (Apokolokýntosis) | |
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Titolo originale | Ἀποκολοκύντωσις |
Altri titoli | Ludus de morte Claudii, Divi Claudii apotheosis per saturam |
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Autore | Lucio Anneo Seneca |
1ª ed. originale | 54 |
Editio princeps | Roma, 1513 |
Genere | racconto |
Sottogenere | satira menippea |
Lingua originale | latino |
Ambientazione | Aldilà, 54 |
Protagonisti | Claudio |
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L’etimologia della parola Ἀποκολοκύντωσις, neologismo confezionato per l’occasione da Seneca deriva dalla crasi, ovvero l’unione, dei termini greci Κολοκύνθη, che significa zucca, e ἀποθέωσις, che significa deificazione/glorificazione.
Il componimento inizia situando, in modo parodico, l'ora della morte di Claudio (capp. 1–2), narrata secondo la versione ufficiale diffusa da Seneca e Agrippina, mentre le Parche tagliano lo stame della vita dell'imperatore e Apollo celebra l'ascesa al trono di Nerone e l'avvento di una nuova età aurea (capp. 3–4).
Dopo un secondo proemio (cap. 5,1), Claudio ascende all'Olimpo, alle porte del quale è bloccato da Ercole, portinaio degli dèi che, non essendo riuscito a capire chi o cosa sia quell'uomo, che si esprime balbettando e con citazioni dotte (capp. 5,2-7), lo conduce nel concilio degli dèi perché egli pretende di essere assunto fra le divinità[1].
Dopo una lunga disputa, in cui intervengono Giano a favore dell'imperatore e Augusto stesso, che deplora il nipote come erede degenere, Claudio è condannato all'unanimità a essere gettato, come tutti i mortali, agli inferi (capp. 7–11) e, accompagnatovi da Mercurio, assiste al suo funerale, dove gli avvocati e i poetastri si disperano per la morte di un imperatore appassionato di processi e di poesia da strapazzo, intonando un coro funebre in anapesti (cap. 12).
Arrivato nell'Ade, Claudio viene accolto dalla folla inferocita delle sue vittime e, dopo essere stato processato dal giudice dei morti, Eaco, finisce schiavo del nipote Caligola e, successivamente, viene assegnato al suo liberto Menandro, che lo costringe a lanciare dadi da un barattolo forato nel fondo (capp. 13–15).
Seneca scrive quest'opera non solo per motivazioni personali (infatti Claudio, influenzato dalla moglie Messalina, lo aveva condannato all'esilio), che poco si sarebbero adattate alle caratteristiche del "saggio" che egli ci descrive come modello nei suoi scritti filosofici, ma anche e soprattutto per ragioni di carattere politico e sociale: Claudio, infatti, era stato un imperatore autoritario, che aveva reso il Senato un burattino nelle sue mani e aveva condannato persone con processi sommari.
Il titolo implica un riferimento al termine greco κολοκύνθη (kolokýnthe, "zucca", probabilmente Lagenaria siceraria), forse come emblema di stupidità, ed è intesa come "zucchizzazione" (e non come alcuni traducono erroneamente come "deificazione di una zucca, di uno zuccone"), con riferimento alla fama non lusinghiera di cui l'imperatore Claudio godeva[2]. L'opera contiene la parodia della divinizzazione di Claudio, decretata dal senato subito dopo la sua morte (nel 54 d.C.), evento che, dietro la maschera di ufficialità, aveva suscitato le ironie degli stessi ambienti di corte e dell'opinione pubblica[3].
L'opera rientra nel genere della satira menippea (così detta da Menippo di Gadara, l'iniziatore di questa forma letteraria, al quale sembrano rimandare alcune analogie del libello senecano con alcuni dialoghi dello scrittore greco Luciano) e alterna prosa e versi (anche greci)[4].
La Apokolokyntosis è stata conservata da oltre quaranta manoscritti, che il filologo P. T. Eden[5] ha diviso in tre famiglie. I tre manoscritti più antichi sono:
(LA)
«Damnabis numquam longum post tempus amicum | Mutavit mores sed pignora prima memento» |
(IT)
«Non maledirai chi ti è stato amico per lungo tempo | I costumi sono mutati, ma ricorda l'antico pegno (d'amicizia)» |
(Disticha Catonis, IV.41 = vol. III, p. 234 Baehrens) |
I tre manoscritti, di cui S è il più antico, derivano da un progenitore comune (α) il quale, da un lato, ha dato origine a S; dall'altro, a un apografo (β) dal quale sono derivati VL.[6]
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