Le parole e le cose è un libro di Michel Foucault, pubblicato per la prima volta in Francia da Gallimard nel 1966, con il titolo originale Les Mots et les Choses (Une archéologie des sciences humaines) ("Le parole e le cose — un'archeologia delle scienze umane"). Sia in quest'opera, sia ne L'archeologia del sapere, Foucault sviluppa la nozione di episteme.
Le parole e le cose | |
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Titolo originale | Les Mots et les Choses (Une archéologie des sciences humaines) |
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Autore | Michel Foucault |
1ª ed. originale | 1966 |
1ª ed. italiana | 1967 |
Genere | saggio |
Sottogenere | filosofia |
Lingua originale | francese |
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Sembra che in principio Foucault preferisse il titolo L'Ordre des choses ("L'ordine delle cose"), prima di cambiarlo in quello attuale per accontentare il suo editore, Pierre Nora.[1] Uno dei motivi per insistere sul titolo preferito — del resto successivamente utilizzato nella traduzione inglese, The Order of Things, e in quella tedesca, Die Ordnung der Dinge — sarebbe stato evitare la quasi omonimia con altri coevi scritti dello strutturalismo.[2]
Foucault s'impegna nel portare alla luce le origini delle scienze umane, particolarmente ma non esclusivamente la psicologia e la sociologia.
Il libro si apre con una descrizione ed un dettagliato commento del quadro Las Meninas, di Diego Velázquez e della complessa composizione delle sue linee di piano e dei suoi effetti nascosti. «Può essere che ci sia, in questo quadro di Vélasquez, come la rappresentazione della rappresentazione classica», scrive Foucault.
Poi viene sviluppata l'idea principale dell'opera, che tutti i periodi della storia hanno posseduto certe sottese condizioni di verità che fondavano ciò che era accettabile, come ad esempio, il discorso scientifico. Foucault sostiene che queste condizioni di discorso sono cambiate nel tempo, dall'episteme di un periodo ad un altro, in modo più o meno progressivo. Jean Piaget, in Structuralism,[3] confronta l'episteme di Foucault con la nozione di paradigma propugnata da Thomas Kuhn. Foucault dimostra i parallelismi in tre campi, linguistica, biologia ed economia.
Definisce queste "condizioni del discorso" con il vocabolo "episteme", etimologicamente vicino alla nozione di epistemologia.[4] Foucault analizza qui le diverse trasformazioni delle scienze. Quelle del linguaggio: la grammatica generale evolve in linguistica. Quelle della vita: la storia naturale vira verso la biologia. La scienza delle ricchezze corrisponde ad una mutazione dell'episteme da cui nasce l'economia moderna. La nozione di episteme non va confusa con quella di Weltanschauung (concezione del mondo), sostenuta da Dilthey ed espressamente avversata da Foucault.[5]
«Sono tutti questi fenomeni di rapporto tra le scienze o tra i diversi discorsi nei diversi settori scientifici che costituiscono ciò che io chiamo l'episteme di un'epoca.»
— Foucault, Dits et Écrits I, in Sur la justice populaire, op. cit., p.1239
Michel Foucault enuncia tre ricorrenze di episteme:
L'episteme del sedicesimo secolo è oggetto del secondo capitolo, ed è anche l'analisi più breve; l'episteme classica è discussa in tutto il resto della prima parte e l'episteme moderna nella seconda.
Per il passaggio da quella che Foucault considera età classica (XVII secolo) al XX secolo, il filosofo francese identifica alcuni pensatori o testi che sono stati determinanti nella genesi dell'episteme moderna, tra cui, in ordine cronologico:
Nell'episteme classica, sostiene Foucault, si parla certamente dell'uomo, ma «non c'è coscienza epistemologica dell'uomo».[6]
Per percepire l'episteme, scrive Georges Canguilhem a proposito di Foucault, è stato necessario «uscire da una scienza e da una storia della scienza: sfidare la specializzazione degli specialisti e tentare di divenire non uno specialista della generalità, ma uno specialista dell'inter-regionalità».[7] Non si tratta assolutamente per Foucault di categorizzare semplicemente periodi storici, l'episteme non è — per una data epoca — una sorta di grande teoria sottesa. Non è «la somma delle sue conoscenze o lo stile delle ricerche» bensì «lo scarto, le distanze, le opposizioni, le differenze […] è uno spazio della dispersione, è un campo aperto e senza dubbio indefinitamente descrivibile di relazioni».[8]
Per comprendere l'episteme foucaldiana[9] bisogna uscire da un pensiero della storia che «prenderà tutte le scienze in una grande ondata».[7]
L'episteme non è, paradossalmente, un oggetto in cui possa dispiegarsi l'epistemologia, è prima di tutto, e nel suo stesso sviluppo, il motivo per cui uno statuto del discorso è ricercato lungo tutto Le parole e le cose. L'oggetto è ciò che ci dice chi ci parla. L'episteme si confronta dunque con la storia delle idee, con la storia delle scienze, è l'oggetto e il risultato di un'elaborazione concettuale dove «l'archeologia» rimpiazza «la Storia».[10]
È a partire da questo concetto di episteme, e dal suo rapporto con l'archeologia, che Foucault si afferma come il pensatore della discontinuità storica, pensatore della rottura. Certamente Foucault rifiuta nettamente tutta la storia continua, progressiva, ma il suo lavoro non consiste nell'opporsi alla storia delle scienze, delle idee (anche se queste ultime devono essere relativizzate e criticate), si tratta piuttosto per Foucault di tentare di farsi da parte, di rischiare il suo pensiero introducendo il significato per la coscienza stessa del distacco che si può percepire dal nostro proprio pensiero. Foucault definisce d'altronde il lavoro come «ciò che è suscettibile d'introdurre una differenza significativa nel campo del sapere, al prezzo di una certa pena per l'autore e per il lettore, e con l'eventuale ricompensa di un certo piacere, vale a dire di un accesso ad un'altra figura della verità».[11]
Il sottotitolo de Le parole e le cose è "archeologia delle scienze umane".
Foucault prefigura che l'originalità della sua analisi indisponga «quelli che preferiscono negare che il discorso sia una pratica complessa e differenziata, obbediente a delle regole e a delle trasformazioni analizzabili, piuttosto che essere privati di quella comoda certezza, di poter cambiare se non il mondo, se non la vita, almeno il loro "significato" grazie alla freschezza di una parola che non verrà se non da loro stessi».[12]
Ad esempio, in biologia «l'evoluzionismo è una teoria biologica le cui condizioni di possibilità risiedono in una biologia senza evoluzione — quella di Cuvier».[13]
Come Foucault fa di Ricardo la condizione di possibilità dell'opera di Marx, ugualmente fa di Cuvier la condizione di possibilità dell'opera di Darwin (ancorché Foucault risenta un certo disagio di fronte a questa caratterizzazione esemplare di «autori», preferirà nel 1970, parlare di «trasformazione Cuvier» o di «trasformazione Ricardo», poiché non è «l'opera» di questi autori che egli cerca di valorizzare, ma le trasformazioni che hanno luogo in una data epoca).[14]
La riconciliazione di questo concetto con il concetto di struttura tale che ne scaturisca lo strutturalismo non è del tutto pertinente.
Le strutture postulano una trasformazione e un'invariante. Le differenti epistemi che Foucault identifica si giustappongono secondo certe «discontinuità enigmatiche».[15] Jean Piaget rileva che la loro "emergenza contingente"[16] è in contraddizione con l'idea di struttura.
La critica di Foucault ha avuto rilevante influenza nel campo della storia culturale.[17] I vari cambi di consapevolezza che egli delinea nei primi capitoli del libro hanno condotto vari studiosi, come Theodore Porter,[18] a scandagliare le basi della conoscenza del nostro tempo e anche a criticare la proiezione di categorie di conoscenza moderne su argomenti che rimangono intrinsecamente inintelligibili, a dispetto della conoscenza storica.
Le parole e le cose portò Foucault a una posizione di eminenza nel panorama intellettuale francese. L'opera, pubblicata lo stesso anno degli Écrits di Jacques Lacan e di Critique et vérité di Roland Barthes, sembra, agli occhi dei lettori contemporanei, partecipare al movimento strutturalista, benché Foucault negasse di appartenervi.[19] Il testo ha venduto 20 000 copie il primo anno, e più di 110 000 nei successivi vent'anni.[19] Pubblicata nella raccolta Tel[20] dal 1990, l'opera continua a vendere 5000 copie l'anno, secondo l'editore.[19]
Una recensione di Jean-Paul Sartre attaccò Foucault definendolo "l'ultima barricata della borghesia". Foucault replicò «povera borghesia, se ha bisogno di me quale 'barricata', ha già perduto il potere!»[21] Un anno dopo, la pubblicazione di Althusser intitolata Pour Marx[22] — le ultime parole di Foucault in questo libro — che afferma che una nuova épistémè potrà far scomparire la figura dell'uomo quale oggetto delle scienze umane, «come al limite del mare un fronte di sabbia», suscita una controversia a proposito del supposto «anti-umanesimo teorico»[23] di Foucault. Anche Jean Lacroix commenta il libro in un articolo di Le Monde dal titolo «Fine dell'umanesimo».[19] Gilles Deleuze intitola, dal canto suo, il suo articolo su Le Nouvel Observateur, «L'uomo, un'esistenza dubbia», mentre Georges Canguilhem sceglie come titolo per il proprio, un anno dopo, sulla rivista Critique: «Morte dell'uomo o esaurimento del cogito».[19] Pertanto, secondo Foucault, la «critica» delle scienze umane sembra di fatto non avere che poco in comune con la critica dell'umanesimo in quanto tale, come indica per esempio il testo sull'opuscolo di Kant, Risposta alla domanda: che cos'è l'Illuminismo?.[24]
La nozione di episteme ha posto dei problemi e prodotto dei malintesi. Foucault, in un'intervista del 1972, precisa: «ciò che ne Le parole e le cose ho chiamato «episteme» non ha niente a che vedere con le categorie storiche. Io intendo tutti i rapporti che sono esistiti in una certa epoca nei diversi domini della scienza [...] Sono tutti questi fenomeni di rapporto fra le scienze o fra i diversi discorsi nei diversi settori scientifici che costituiscono ciò che io chiamo episteme di un'epoca».[25] L'identificazione dell'episteme di un'epoca, non è una categorizzazione storica e progressiva degli oggetti di un sapere di un dato periodo, ma la messa in prospettiva archeologica (e critica) del divario stesso che si è potuto assegnare nelle proprie strutture di pensiero, prese esse stesse in una rete impercettibile di vincoli legata all'episteme alla quale noi apparteniamo, con un'episteme anteriore (nel caso specifico l'episteme classica) in cui ci è impossibile riconoscere come la disposizione generale dei saperi ha subito «discontinuità enigmatiche»[26] che Foucault qualifica come «mutazione», «evento radicale», «ritardo infimo ma essenziale».[27] Nella prefazione a Le parole e le cose, Foucault spiega: «Ciò che si offre all'analisi archeologica è tutto il sapere classico, o piuttosto questa soglia che ci separa dal pensiero classico e costituisce la nostra modernità. È su questa soglia che è apparsa per la prima volta questa strana figura di sapere chiamata uomo, e che ha aperto uno spazio proprio alle scienze umane».[28]
Canguilhem, ad appena un anno dalla pubblicazione, commenta così il libro:
«Designando con il nome generale di antropologia l'insieme di queste scienze che si sono costituite nel XIX secolo, non come un'eredità del XVIII, ma come un «evento nell'ordine del sapere»,[29] Foucault chiama allora «sonno antropologico» la tranquilla sicurezza con cui i promotori attuali delle scienze umane assumono che sia concesso come oggetto (...) ciò che non è stato in principio che il loro progetto costitutivo [...] Le parole e le cose è per le scienze dell'uomo ciò che Critica della ragion pura è stato per le scienze della natura».[7]
È a partire da queste «contro-scienze» umane, vale a dire la psicanalisi, l'etnologia e la linguistica,[30] ma anche a partire dalla letteratura,[31] che Foucault elabora il suo pensiero.
In italiano, il libro è uscito nella traduzione di Emilio Panaitescu,[32] con un saggio critico di Georges Canguilhem, presso Rizzoli nel 1967 e in numerose ristampe successive.
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