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Le vergini delle rocce è un romanzo scritto nel 1895 da Gabriele D'Annunzio.

Le vergini delle rocce
Gabriele d'Annunzio ai primi del Novecento
AutoreGabriele D'Annunzio
1ª ed. originale1895
Genereromanzo
Sottogeneredrammatico
Lingua originaleitaliano
AmbientazioneRomaPopoli (Abruzzo)
ProtagonistiClaudio Cantelmo
CoprotagonistiAnatolia, Massimilla, Violante
Altri personaggiil principe padre
Aldoina
Osvaldo
Antonello

Dopo aver pubblicato Il piacere, Il trionfo della morte, Giovanni Episcopo e L'innocente, D'Annunzio entra in contatto con l'opera di Nietzsche, da cui rimane profondamente segnato. Ne Il trionfo della morte si avvertono già alcuni significativi riferimenti al pensiero del grande filosofo tedesco, ma sarà solo con Le vergini delle rocce che l'acquisizione di Nietzsche, come suggestione e stimolo letterari, si farà più lucida e consapevole. Nel dare vita alla figura del protagonista del romanzo il Vate si ispira infatti, al Superuomo.

Le vergini delle rocce, inizialmente pubblicato a puntate sul Convito, doveva costituire il primo libro di un ciclo (I romanzi del giglio) che D'Annunzio avrebbe poi rinunciato a completare, nonostante avesse già abbozzato i temi conduttori delle altre due opere progettate i cui titoli sarebbero stati: La grazia e L'annunciazione (seguiti da un breve Epilogo). È possibile che gli ultimi due romanzi della trilogia non videro mai la luce, come ha acutamente osservato Giansiro Ferrata, per l'impossibilità dello scrittore di discostarsi dal tema della paternità, tema probabilmente infido e sospetto per D'Annunzio, unitamente alla difficoltà «…di rinnovare nel secondo e terzo volume i modi e l'intensità di stile che sostengono o innalzano il primo…».[1]


Trama


Taverna Ducale di Popoli
Taverna Ducale di Popoli
Particolare degli stemmi sul bassorilievo della taverna
Particolare degli stemmi sul bassorilievo della taverna
Castello Cantelmo
Castello Cantelmo

Claudio Cantelmo è un nobile di Roma, sebbene abbia parenti in Abruzzo: a Popoli, ed è l'ultimo discendente di una nobile e antica famiglia che in passato ha dato all'Italia condottieri e politici prestigiosi. Il ricordo di costoro unitamente al rigetto dei valori borghesi della società in cui è costretto a vivere, lo portano a concepire l'idea di generare un erede degno di tali illustri antenati mediante l'unione con una nobildonna di pari rango. Il rampollo dovrà portare a compimento l'«ideal tipo latino», imponendosi sulle plebi con la forza della volontà dominatrice e con gli attributi caratteriali e intellettuali che hanno fatto in passato la grandezza sia della famiglia paterna che materna.

Il protagonista vuole pertanto generare una sorta di superuomo che riassuma in sé le caratteristiche più alte delle due stirpi da cui proviene. Restaurati i valori aristocratici di un tempo potrà porsi alla guida del suo popolo e condurlo verso mete sempre più alte divenendo egli stesso un novello "re di Roma". Abbandonata la corrotta capitale d'Italia, Claudio si trasferisce in un'appartata e indefinita località dell'ex Regno delle due Sicilie, dove ha trascorso l'infanzia e dove riallaccia i rapporti con una nobile famiglia del posto, anche se decaduta: i principi Capece-Montaga, che vivono in un palazzo in sfacelo, nel culto ossessivo del passato borbonico, e con due dei loro membri sconvolti dalla follia.

Claudio si sente subito attratto dalle tre figlie del principe: Violante, la maggiore, bella, altera, sensuale, Massimilla, pura e sensibile, ma in procinto di prendere i voti, Anatolia, depositaria dei valori familiari che con abnegazione si occupa della madre demente e del fratello, Antonello, psichicamente instabile e perturbato.

Il protagonista è consapevole che una delle tre sorelle sarà la madre dell'erede intellettualmente superdotato che egli desidera generare, ma non sa decidersi: ognuna di esse possiede infatti virtù e caratteristiche uniche che potrebbero essere trasmesse alla discendenza. Alla fine la scelta cade su Anatolia, che non senza rammarico rifiuterà la proposta di matrimonio per poter continuare ad assistere la vecchia madre demente, il fratello psicolabile e il vecchio padre. Anatolia stessa, tuttavia, spinge Claudio a prendere in considerazione, come futura consorte, sua sorella Violante, non solo perché è la primogenita, ma anche perché degna del suo amore. Non ci è dato sapere se Claudio, seguendo il suggerimento di Anatolia, sceglierà Violante, anche perché Qui finisce il libro delle vergini e incomincia il libro della Grazia.[2] Lo snodo della vicenda infatti, avrebbe dovuto aver luogo nel secondo romanzo della trilogia progettata da D'Annunzio e mai portata a compimento.


Il superuomo dannunziano


La scoperta di Nietzsche da parte di D'Annunzio non avviene sul piano ideologico, ma si conforma come una suggestione letteraria.[3]. In particolare la figura del superuomo viene ripresa e rielaborata da D'Annunzio secondo una visione personale e una sensibilità estetica estranee a quelle del filosofo tedesco. Il razzismo aristocratico e biologico di cui fa mostra Claudio Cantelmo, non appartiene a Nietzsche, il cui oltreuomo raggiunge un'etica e una conoscenza superiori non grazie alla nobiltà del sangue, ma seguendo un percorso personale e una dura disciplina di vita. D'altra parte lo scrittore abruzzese in nessun momento ha utilizzato il termine di superuomo in questa o in altre sue creazioni né tantomeno ha mai avuto la pretesa di farsi interprete del pensiero nietzschiano. Le preoccupazioni del Vate erano squisitamente artistiche, non filosofiche. Ed è l'arte che ne Le vergini delle rocce « [...] si presenta come strumento di una diversa aristocrazia, elemento costitutivo del vivere inimitabile, suprema affermazione dell'individuo e criterio fondamentale di ogni atto».[4]

Claudio Cantelmo, esponente di una famiglia patrizia, è un antiborghese e manifesta un'avversione violenta ai princìpi democratici ed egualitari. Acceso è anche il tono antiparlamentare, tanto che i parlamentari sono definiti stallieri della Gran Bestia [5]: "Le vostre risa frenetiche salgano fino al cielo, quando udite gli stallieri della Gran Bestia vociferare nell'assemblea". La nuova oligarchia formata da aristocratici e poeti non dovrà lasciarsi illudere dai rappresentanti del popolo: " Proclamate e dimostrate per la gloria dell'Intelligenza che le loro dicerie non sono men basse di quei suoni sconci con cui il villano manda fuori per la bocca il vento dal suo stomaco rimpinzato di legumi". E i poeti con la forza del loro Verbo distruggeranno la meschinità borghese che a sua volta distrugge la Bellezza. La parola poetica è infatti divina, è Verbo: "Non disperate, essendo pochi. Voi possedete la suprema scienza e la suprema forza del mondo: Il Verbo. Un ordine di parole può vincere d'efficacia micidiale una formula chimica. Opponete risolutamente la distruzione alla distruzione".


Poesia e stile


Le vergini delle rocce in misura ben più accentuata dei precedenti romanzi di D'Annunzio, si conforma come un vero e proprio poema in prosa con una trama chiaramente subordinata alla poesia in essa contenuta e con tutti i personaggi (ad eccezione del protagonista) immersi in una fissità atemporale. La poesia raggiunge forse i suoi momenti più alti nelle descrizioni dei paesaggi e degli ambienti naturali che fanno da cornice alla vicenda, emblematici di un Meridione profondo, in cui la vita sembra concentrarsi in una valle appartata dal mondo e dominata da imponenti pareti rocciose.

Di fondamentale importanza è lo stile oratorio adottato nel testo, elaborato da D'Annunzio in lunghi mesi di lavoro e considerato dal Vate essenziale per il successo del romanzo, sia in Italia che all'estero. A tale proposito sono indicative le raccomandazioni che lo scrittore faceva al suo traduttore francese, Georges Hérelle, in una lettera del gennaio 1895: « [...] ho adoperato uno stile latino, a grandi periodi tutti carichi di incidenti e occorrerà conservare nella traduzione questo carattere un po' oratorio...»[6]


Note


  1. Cit. tratta dalla prefazione di Giansiro Ferrata a: Gabriele D'Annunzio, Le vergini delle rocce, Milano, Mondatori, ed. 1986, p. 7
  2. Gabriele D'Annunzio, op. cit., p. 186
  3. Emanuela Scarano Lugnani, D'Annunzio, Roma-Bari, Laterza, 1981, p. 43
  4. Cit. tratta da Emanuela Scarano Lugnani, op. cit., p. 43
  5. L'immagine della Gran Bestia deriva dall'Apocalisse di Giovanni ed indica con tono dispregiativo le masse. Tre anni prima di pubblicare questo romanzo, D'Annunzio aveva scritto, il 25-26 settembre 1892 su "Il Mattino di Napoli", un articolo dal titolo La Bestia elettiva, dove affermava: " Le plebi restano sempre schiave e condannate a soffrire, tanto all'ombra delle torri feudali quanto all'ombra dei feudali fumaioli nelle officine moderne. Esse non avranno mai dentro di loro il sentimento della libertà. [....] Su l'uguaglianza economica e politica, a cui aspira la democrazia socialista, si andrà formando una oligarchia nuova, un nuovo reame della forza, e questo gruppo a poco a poco riuscirà ad impadronirsi di tutte le redini per domare le masse a suo profitto, distruggendo qualunque vano sogno di uguaglianza e di giustizia".
  6. Cit. da Giansiro Ferrata, nella prefazione a Gabriele D'Annunzio, op. cit., p. 12

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