Il termine lonza (dal latino lunceam, derivato da lyncem, accusativo di lynx, dal greco antico λύγξ, lýnx, «lince»), ai tempi di Dante Alighieri, indicava un felino, presumibilmente la lince o forse il leopardo[1]. Un tempo presente in tutta Europa, in Italia si trova attualmente solo nelle Alpi, ma forse anche sugli Appennini.[2]
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Dante la pone, assieme al leone e alla lupa, tra le tre fiere che gli sbarrano la strada nel primo canto dell'Inferno (Divina Commedia I, vv. 31-60) come allegoria di altrettanti peccati capitali. I commentatori antichi indicano la lonza come la lussuria che si interpone tra Dante e il colle con l'intento di farlo ripiombare nei suoi dubbi peccaminosi. L'interpretazione legata a un vizio umano, sebbene non tutti siano concordi nell'indicare proprio la lussuria, sembra quella più valida e accettata, considerando che nei bestiari medievali la lonza veniva definita un animale sempre in calore e che quindi si accoppiava in ogni stagione.
Su un antico documento viene citato che una lonza o leonza veniva tenuta in una gabbia nel Comune di Firenze, forse da qui l'idea di Dante di rappresentare allegoricamente la sua città con questo animale. In realtà il serraglio di leoni che Firenze teneva dietro Palazzo Vecchio, in quella che oggi si chiama appunto Via dei Leoni, è ben documentato e non è chiaro perché per indicare la sua città egli non abbia usato il leone stesso, che incontra poco dopo nel canto.
Nel film L'armata Brancaleone del 1967, il protagonista in una scena narra la sua gioventù dicendo: «[...] ov' io crebbi, libero e forte come una lonza [...]».
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