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Marco Tullio Cicerone (in latino: Marcus Tullius Cicero, pronuncia ecclesiastica: /ˈmarkus ˈtulljus ˈt͡ʃit͡ʃero/, pronuncia restituta o classica: /ˈmaːr.kʊs ˈtu:l.lɪ.ʊs ˈkɪ.kɛ.roː/; in greco antico: Μάρκος Τύλλιος Κικέρων (Márkos Týllios Kikérōn); Arpino, 3 gennaio 106 a.C.Formia, 7 dicembre 43 a.C.) è stato un avvocato, politico, scrittore, oratore e filosofo romano.

Disambiguazione – "Cicerone" rimanda qui. Se stai cercando altri significati, vedi Cicerone (disambigua).
Marco Tullio Cicerone
Console della Repubblica romana
Busto di Cicerone (Musei Capitolini, Roma)
Nome originaleMarcus Tullius Cicero
Nascita3 gennaio 106 a.C.
Arpino, Latium, Italia
Morte7 dicembre 43 a.C.
Formia, Latium, Italia
ConiugeTerenzia (79-46 a.C.)
Publilia (46-45 a.C.)
FigliTullia
Marco Tullio Cicerone
PadreMarco Tullio Cicerone il Vecchio
MadreElvia
Questura75 a.C.
Edilità69 a.C.
Pretura66 a.C.
Consolato63 a.C.
Proconsolato51 a.C.
Princeps senatus43 a.C.

Esponente di un'agiata famiglia dell'ordine equestre, fu una delle figure più rilevanti di tutta l'antichità romana. La sua vastissima produzione letteraria, che va dalle orazioni politiche agli scritti di filosofia e retorica, oltre a offrire un prezioso ritratto della società romana negli ultimi travagliati anni della repubblica, rimase come esempio per tutti gli autori del I secolo a.C., tanto da poter essere considerata il modello della letteratura latina classica.

Grande ammiratore della cultura greca, attraverso la sua opera i Romani poterono anche acquisire una migliore conoscenza della filosofia. Tra i suoi maggiori contributi alla cultura latina ci fu, senza dubbio, la creazione di un lessico filosofico latino: Cicerone si impegnò, infatti, a trovare il corrispondente vocabolo in latino per tutti i termini specifici del linguaggio filosofico greco.[1] Tra le opere fondamentali per la comprensione del mondo latino si collocano, invece, le Lettere (Epistulae, in particolar modo quelle all'amico Tito Pomponio Attico) che offrono numerosissime riflessioni su ogni avvenimento, permettendo di comprendere quali fossero le reali linee politiche dell'aristocrazia romana.

Cicerone occupò per molti anni anche un ruolo di primaria importanza nel mondo della politica romana: dopo aver salvato la repubblica dal tentativo eversivo di Lucio Sergio Catilina e aver così ottenuto l'appellativo di pater patriae (padre della patria), ricoprì un ruolo di primissima importanza all'interno della fazione degli Optimates. Fu, infatti, Cicerone che, negli anni delle guerre civili, difese strenuamente, fino alla morte, una repubblica giunta ormai all'ultimo respiro e destinata a trasformarsi nel principatus augusteo.


Biografia



Giovinezza



L'infanzia e la famiglia

Marco Tullio Cicerone nacque il 3 gennaio del 106 a.C.[2] in località Ponte Olmo,[3] in prossimità della confluenza del fiume Fibreno nel Liri, nell'area attualmente occupata dall'Abbazia di San Domenico,[4] oggi nel territorio di Sora ma all'epoca nel comune di Arpinum, antica città di collina fondata dai Volsci 100 chilometri a sud-est di Roma.[5] Gli Arpinati avevano ricevuto la civitas sine suffragio già nel IV secolo a.C., e i pieni diritti di cittadinanza nel 188 a.C.; in seguito la città aveva ottenuto anche lo status di municipium.[5] La lingua latina vi era in uso già da lungo tempo.[6] Ad Arpino, tuttavia, era diffuso anche l'insegnamento della lingua greca, che l'élite senatoriale romana preferiva spesso a quella latina, riconoscendone la maggiore raffinatezza e precisione.[7] L'assimilazione da parte dei Romani delle comunità italiche nelle vicinanze di Roma, avvenuta tra il II e il I secolo a.C., rese possibile il futuro di Cicerone come scrittore, statista e oratore.

Cicerone apparteneva alla classe equestre, la piccola nobiltà locale, e, anche se lontanamente imparentato con Gaio Mario, il corifèo dei Populares durante la guerra civile contro gli optimates di Lucio Cornelio Silla,[8] non aveva alcun legame con l'oligarchia senatoriale romana; era dunque un homo novus. La famiglia era composta dal padre Marco Tullio Cicerone il Vecchio, uomo colto ma di origine sconosciuta, dalla madre Elvia, di nobile casato e integri costumi,[9] e dal fratello Quinto.

Il cognomen Cicero era il soprannome di un suo antenato abbastanza noto, che aveva un'escrescenza carnosa sul naso (presumibilmente una verruca), che ricordava nella forma un cece (cicer, ciceris è il termine latino per cece). Quando Marco presentò per la prima volta la sua candidatura a un ufficio pubblico, alcuni amici gli sconsigliarono l'utilizzo del suo cognomen, ma lui rispose che «avrebbe fatto sì che esso diventasse più noto di quello degli Scauri e dei Catuli.»[10]


Studi

Giovane Cicerone che legge o Fanciullo che legge Cicerone affresco staccato di Vincenzo Foppa (1464 circa), Collezione Wallace di Londra
Giovane Cicerone che legge o Fanciullo che legge Cicerone affresco staccato di Vincenzo Foppa (1464 circa), Collezione Wallace di Londra

Cicerone si rivelò subito un fanciullo dotato di straordinaria intelligenza, distinguendosi tra i suoi coetanei a scuola e accumulando fama e onore.[11] Il padre, auspicando per i figli una brillante carriera forense e politica, li condusse a Roma dove Marco venne introdotto nel circolo dei migliori oratori del suo tempo, protettori della sua famiglia, Lucio Licinio Crasso e Marco Antonio. Particolare influenza la ebbe il primo su Cicerone, per cui rimase sempre modello di oratore e di statista. A Roma Cicerone poté anche formarsi nella giurisprudenza, grazie alla scuola di Quinto Mucio Scevola, eminente giurista.[12] Tra i compagni di Cicerone c'erano Gaio Mario il Giovane, Servio Sulpicio Rufo (destinato a divenire un celebre avvocato, uno dei pochi che Cicerone considerò superiori a sé stesso) e Tito Pomponio, che prese poi il cognomen di Attico dopo una lunga permanenza ad Atene e che divenne intimo amico di Cicerone. In una lettera, infatti, gli scrisse: «Sei per me come un secondo fratello, un alter ego al quale posso dire ogni cosa».[13]

In questo periodo Cicerone si avvicinò anche alla poesia[14] cimentandosi nella traduzione di Omero e dei Fenomeni di Arato, che influenzarono, più tardi, le Georgiche di Virgilio.

Particolarmente attratto dalla filosofia,[15] alla quale avrebbe dato grandi contributi, tra i quali la creazione del primo vocabolario filosofico in lingua latina, nel 91 a.C. incontrò, assieme all'amico Tito Pomponio (Attico), il filosofo epicureo Fedro in visita a Roma. I due ne furono affascinati, ma solo Attico rimase per tutta la vita seguace della dottrina epicurea. Tra il 79 e il 77 conobbe il maestro di retorica Apollonio Molone[16] (che istruì, pochi anni dopo, anche Gaio Giulio Cesare) e l'accademico Filone di Larissa, che esercitò in lui un'influenza profonda. Questi era, infatti, a capo dell'Accademia che Platone aveva fondato ad Atene circa trecento anni prima e Cicerone, grazie alla sua influenza, assimilò la filosofia platonica - pur rigettando, ad esempio, la teoria delle idee - arrivando spesso a definire Platone come il suo dio.

Poco tempo dopo, Cicerone incontrò Diodoto, esponente dello stoicismo. Lo stoicismo era già stato precedentemente introdotto a Roma, dove aveva ricevuto larghi consensi grazie all'enfasi posta sul controllo delle emozioni e sulla forza di volontà, che sposava gli ideali romani. Cicerone non adottò completamente l'austera filosofia stoica, ma preferì uno stoicismo modificato. Diodoto divenne poi un protetto di Cicerone, dal quale fu ospitato fino alla morte. Il filosofo, dimostrando la sua piena adozione dello stoicismo, continuò a insegnare anche dopo la perdita della vista.[15]


Cursus honorum



Prime esperienze

Il sogno di infanzia di Marco Tullio Cicerone era quello di "essere sempre il migliore ed eccellere sugli altri", in linea con gli ideali omerici. Cicerone desiderava dignitas e auctoritas, simboleggiati dalla toga pretesta e dalla verga dei littori. C'era un solo modo per ottenerli: percorrere i gradini del cursus honorum. Nel 90 a.C., tuttavia, Cicerone era troppo giovane per approdare a qualsiasi carica del cursus honorum, ma non per acquisire l'esperienza preliminare in guerra che una carriera politica richiedeva. Tra il 90 a.C. e l'88 a.C., Cicerone servì sotto Gneo Pompeo Strabone e Lucio Cornelio Silla durante le campagne della guerra sociale, sebbene lui non provasse alcuna attrazione per la vita militare. Era prima di tutto un intellettuale. Infatti, molti anni dopo scrisse al suo amico Attico, che stava raccogliendo statue marmoree per le ville di Cicerone: "Perché mi spedisci una statua di Marte? Sai che io sono un pacifista!"[17]

L'ingresso di Cicerone nella carriera forense avvenne ufficialmente nell'81 a.C. con la sua prima orazione pubblica, la Pro Quinctio, per una causa in cui ebbe come avversario il più celebre oratore del tempo, Quinto Ortensio Ortalo. Ma il suo vero esordio nell'oratoria a carattere politico, almeno secondo le testimonianze scritte a noi disponibili, si ebbe con la Pro Roscio Amerino, molto concitata e a tratti enfatica, che conserva molto di scolastico nello stile esuberante.[18][19] Qui Cicerone difese con successo un figlio ingiustamente accusato di parricidio, dimostrando grande coraggio nell'assumersene la difesa: il parricidio era considerato tra i crimini peggiori, e i veri colpevoli dell'omicidio erano sostenuti dal liberto di Silla, Lucio Cornelio Crisogono. Se Silla avesse voluto, sarebbe stato fin troppo facile eliminare Cicerone, proprio alla sua prima apparizione nei tribunali.

Lucio Cornelio Silla.
Lucio Cornelio Silla.

Cicerone divise le sue argomentazioni in tre parti: nella prima, difese Roscio e tentò di provare che non era stato lui a commettere l'assassinio; nella seconda, attaccò quelli che avevano realmente commesso il crimine - tra cui anche un parente dello stesso Roscio - e dimostrò come l'assassinio favoriva più quelli che Roscio; nella terza, attaccò direttamente Crisogono, affermando che il padre di Roscio era stato assassinato per ottenere i suoi terreni a un prezzo conveniente, una volta messi all'asta. In forza di queste argomentazioni, Roscio fu assolto.

Per sfuggire a una probabile vendetta di Silla,[20] tra il 79 e il 77 a.C. Cicerone si recò, accompagnato dal fratello Quinto, dal cugino Lucio e probabilmente anche dall'amico Servio Sulpicio Rufo, in Grecia e in Asia Minore.[21] Particolarmente significativa fu la sua permanenza ad Atene. Qui incontrò nuovamente l'amico Attico che, fuggito da un'Italia sconvolta dalle guerre, si era rifugiato in Grecia. Egli era poi diventato cittadino onorario di Atene e poté presentare a Cicerone alcune tra le più importanti personalità ateniesi del tempo. Ad Atene, inoltre, Cicerone visitò quelli che erano i luoghi sacri della filosofia, a cominciare dall'Accademia di Platone, di cui era allora capo Antioco di Ascalona. Di quest'ultimo Cicerone ammirò la facilità di parola, senza tuttavia condividerne le idee filosofiche, ben differenti da quelle di Filone, delle quali era convinto ammiratore.[22][23] Dopo un breve soggiorno a Rodi, dove conobbe lo stoico Posidonio, Cicerone tornò in Grecia, dove fu iniziato ai misteri eleusini, che lo impressionarono molto, e dove poté visitare l'Oracolo di Delfi. Qui domandò alla Pizia in quale modo avrebbe potuto raggiungere la gloria, ed ella gli rispose che avrebbe dovuto seguire il suo istinto, e non i suggerimenti che riceveva.[24]


Ingresso in politica

Busto di Cicerone
Busto di Cicerone

Tornato a Roma dopo la morte di Silla (78 a.C.), Cicerone diede inizio alla sua vera e propria carriera politica, in un ambiente sostanzialmente favorevole: nel 76 a.C., dopo aver pronunciato la celebre orazione Pro Roscio comoedo, si presentò come candidato alla questura, la prima magistratura del cursus honorum.[25] I questori, eletti in numero di venti, si occupavano della gestione finanziaria, o assistevano propretori e proconsoli nel governo delle province. Eletto alla carica per la città di Lilibeo (l'odierna Marsala), nella Sicilia occidentale, svolse il lavoro con scrupolo e onestà tanto da guadagnarsi la fiducia degli abitanti del luogo. Durante la sua permanenza in Sicilia visitò, a Siracusa, la tomba di Archimede. Grazie all'interesse di Cicerone per lo scienziato siracusano sono in nostro possesso alcune importanti informazioni su di lui e in particolare la migliore testimonianza sul suo planetario. Al termine del mandato, i Siciliani gli affidarono la causa contro il propretore Verre, reo di aver tiranneggiato l'isola nel triennio 73-71 a.C.[26][27] Cicerone raccolse con zelo le prove della colpevolezza, pronunciò due orazioni preliminari (Divinatio in Quintum Caecilium e Actio prima in Verrem) e l'ex governatore, oberato da prove schiaccianti, scelse l'esilio volontario.[28] Le cinque orazioni preparate per le successive fasi del processo (che costituiscono l'Actio secunda) furono pubblicate più tardi e costituiscono un'importante prova del malgoverno che l'oligarchia senatoria esercitava a seguito delle riforme sillane. Attaccando Verre, Cicerone attaccò la prepotenza della nobiltà corrotta, ma non l'istituzione senatoria, anzi fece proprio appello alla dignità di tale ordine perché estromettesse i membri indegni. Acquisì, inoltre, un enorme prestigio perché a difendere Verre era Quinto Ortensio Ortalo, considerato il più grande avvocato dell'epoca:[29] "sconfitto", Ortensio dovette accettare che il suo posto venisse preso da Cicerone il quale si guadagnò il titolo di principe del foro. Nonostante l'episodio, i due strinsero poi un buon legame di amicizia. A Ortensio, anzi, che elogiò anche nel Brutus, Cicerone dedicò un'intera opera, non pervenutaci, l'Hortensius.

L'oratoria e l'attività forense erano, a Roma, uno dei principali mezzi di propaganda per i politici emergenti, in quanto non esistevano documenti scritti di argomento politico, con l'eccezione degli Acta Diurna, che godevano di scarsa diffusione.

Contro Cicerone, però, rimaneva la naturale diffidenza dei nobili verso chi era un homo novus, accresciuta dal fatto che l'ultimo homo novus ad acquisire rilevante peso politico era stato il concittadino dello stesso Cicerone, Gaio Mario. Anche lo stesso Silla, tuttavia, fiero oppositore di Mario, aveva preso alcuni provvedimenti che permettevano e facilitavano l'ingresso degli equites alla vita politica, dando così a Cicerone la possibilità di raggiungere le vette del cursus honorum.

Il successo ottenuto da quelle orazioni (che vennero poi chiamate Verrine), anticipatrici dei principi di un governo umano e ispirato a onestà e filantropia, portò Cicerone in primo piano sulla scena politica: nel 69 a.C. venne eletto alla carica di edile curule (all'età di 37 anni),[30] nel 66 a.C. diventò pretore con una elezione all'unanimità (a 40 anni).[31] Nello stesso anno pronunciò il suo primo discorso politico, Pro lege Manilia de imperio Cn. Pompei, in favore del conferimento dei pieni poteri a Pompeo per la guerra mitridatica. In questa occasione Pompeo era appoggiato dai cavalieri, interessati alla rapida risoluzione della guerra in Asia, mentre gli era contraria la maggioranza del Senato.[32] Il motivo dell'impegno di Cicerone in una causa ostile all'alta aristocrazia (che d'altronde era restìa ad accoglierlo tra le proprie file) sta probabilmente nell'importanza che essa aveva per i pubblicani (titolari degli appalti pubblici e della riscossione delle imposte) e gli affaristi, minacciati nei loro interessi da Mitridate VI. La provincia dell'Asia Minore, minacciata dal sovrano del Ponto, era, infatti, particolarmente attiva dal punto di vista dell'economia e del commercio.


Consolato

Cicerone denuncia Catilina, affresco di Cesare Maccari a Palazzo Madama in Roma che raffigura Cicerone mentre pronuncia una delle orazioni contro Catilina
Cicerone denuncia Catilina, affresco di Cesare Maccari a Palazzo Madama in Roma che raffigura Cicerone mentre pronuncia una delle orazioni contro Catilina

Nel 65 a.C. Cicerone presentò la candidatura al consolato. Nel 64 venne eletto console per l'anno successivo (ossia il 63 a.C.). La sua posizione venne illustrata dal fratello Quinto in un'opera (di dubbia attribuzione: la scrisse lo stesso Cicerone?), Commentariolum petitionis, scritta per consigliarlo nella campagna elettorale. Per un gioco delle classi, Cicerone risultò eletto con il voto di tutte le centurie.[33] Assieme a lui risultò eletto il patrizio Gaio Antonio Ibrida, zio di Marco Antonio, futuro triumviro e acerrimo nemico dell'arpinate, accusato dallo stesso Cicerone (In toga candida, orazione - pervenutaci in condizioni frammentarie - tenuta in Senato come candidato poco prima delle elezioni del 64) di essere collusore di Lucio Sergio Catilina.[34] La fiducia riposta in Cicerone dalla classe equestre venne ripagata già all'inizio del consolato con la pronuncia di quattro orazioni (De lege agraria) contro la proposta di redistribuzione delle terre del tribuno Publio Servilio Rullo.[35]

Durante il proprio consolato Cicerone dovette contrastare il tentativo di congiura messo in atto da Catilina. Questi era un nobile impoverito che, dopo aver combattuto insieme a Silla e aver completato il cursus honorum, aspirava a diventare console. Catilina si candidò a console tre volte e tre volte venne fermato con processi dubbi o con probabili brogli elettorali e infine ordì una congiura per rovesciare la repubblica.[36] Catilina contava soprattutto sull'appoggio della plebe, a cui prometteva radicali riforme, e sugli altri nobili decaduti, ai quali prospettava un vantaggioso sovvertimento dell'ordine costituito, che lo avrebbe probabilmente portato ad assumere un potere monarchico o quasi, inoltre sembrerebbe fosse stato supportato politicamente da Gaio Giulio Cesare che venne però tenuto fuori dallo stesso Cicerone e non ebbe conseguenze.[37] Venuto a conoscenza del pericolo che la Repubblica correva grazie alla soffiata di Fulvia, amante del congiurato Quinto Curio,[38] Cicerone fece promulgare dal Senato un senatus consultum ultimum de re publica defendenda, cioè un provvedimento con cui si attribuivano, come era previsto in situazioni di particolare gravità, poteri speciali ai consoli.[39][40] Sfuggito poi a un attentato da parte dei congiurati,[41] Cicerone convocò il Senato nel tempio di Giove Statore, dove pronunciò una violenta accusa a Catilina, con il discorso noto come Prima Catilinaria[42][43], che si apre con il celebre incipit

(LA)

«Quousque tandem abutere, Catilina, patientia nostra?»

(IT)

«Fino a quando, Catilina, abuserai della nostra pazienza?»

(Marco Tullio Cicerone, Catilinarie I,1)

Catilina, visti i suoi piani svelati, fu costretto a lasciare Roma per ritirarsi in Etruria presso il suo sostenitore Gaio Manlio, lasciando la guida della congiura ad alcuni uomini di fiducia, Lentulo Sura e Cetego.[44][45]

Grazie alla collaborazione con una delegazione di ambasciatori inviati a Roma dai Galli Allobrogi, Cicerone poté però trascinare anche Lentulo e Cetego davanti al Senato: gli ambasciatori, incontratisi con i congiurati, che avevano dato loro documenti scritti in cui promettevano grandi benefici se avessero appoggiato Catilina, furono arrestati in modo del tutto fittizio, e i documenti caddero nelle mani di Cicerone. Questi portò Cetego, Lentulo e gli altri davanti al Senato, ma nel decidere quale pena dovesse essere applicata, si scatenò un acceso dibattito: dopo che molti avevano sostenuto la pena capitale, Gaio Giulio Cesare propose di punire i congiurati con il confino e la confisca dei beni. Il discorso di Cesare provocò scalpore, e avrebbe probabilmente convinto i senatori se Marco Porcio Catone Uticense non avesse pronunciato un altrettanto acceso discorso in favore della pena di morte. I congiurati furono quindi giustiziati, e Cicerone annunziò la loro morte al popolo con la formula:

(LA)

«Vixerunt»

(IT)

«Vissero»

(Marco Tullio Cicerone)

poiché era considerato di cattivo auspicio pronunciare la parola "morte" (ed espressioni di significato affine come "sono morti") nel foro. Catilina fu poi sconfitto, nel gennaio 62, in battaglia assieme al suo esercito.

Cicerone, che non smise mai di vantare il proprio ruolo determinante per la salvezza dello Stato (si ricordi il famoso verso di Cicerone sul suo consolato: Cedant arma togae, trad: "che le armi lascino il posto alla toga [del magistrato]"), grazie al ruolo svolto nel reprimere la congiura, ottenne un prestigio incredibile, che gli valse addirittura l'appellativo di pater patriae. Nonostante ciò, la scelta di autorizzare la condanna a morte dei congiurati senza concedere loro la provocatio ad populum (ovvero l'appello al popolo, che poteva decretare la commutazione della pena capitale in una pena detentiva) gli sarebbe costata cara soltanto pochi anni dopo.


Durante la guerra civile



Dal primo triumvirato alle Idi di Marzo

Gaio Giulio Cesare (Musei Vaticani)
Gaio Giulio Cesare (Musei Vaticani)

A seguito del riemergere dei contrasti tra senatori e populares, e dell'accordo tra Cesare e Pompeo ai danni dell'oligarchia senatoria, Cicerone scivolò da parte. L'ultima possibilità di rientrare nel gioco politico gli fu offerta nel 60 a.C. dai tre più potenti uomini del momento, ovvero Pompeo, Cesare e Crasso, alla conclusione dell'accordo per il primo triumvirato: essi chiesero a Cicerone di appoggiare la legge agraria a favore dei veterani di Pompeo e della plebe meno abbiente. Cicerone, tuttavia, rifiutò non solo per non apparire un traditore dell'aristocrazia, ma anche per l'attaccamento all'ordine legale e sociale di cui gli ottimati si proclamavano difensori.[46]

Dopo questo rifiuto e la costituzione del primo triumvirato, Cicerone si tenne fuori dalla politica ma ciò non bastò a salvarlo dalle vendette dei populares: all'inizio del 58 a.C. il tribuno della plebe Clodio Pulcro, nemico di Cicerone per un precedente processo per sacrilegio,[47] fece approvare una legge con valore retroattivo che condannava all'esilio chiunque avesse mandato a morte un cittadino romano senza concedergli la provocatio ad populum. Si trattava, in realtà, di un'abilissima mossa politica di Cesare (che per l'appunto prima di partire per la Gallia attese che Cicerone fosse fuggito da Roma) che, attraverso il suo alleato Clodio, eliminava così dalla scena politica uno dei suoi avversari più tenaci, che avrebbero potuto osteggiarlo durante la sua ascesa al potere. Cicerone fu dunque processato per la sua condotta durante il processo ai Catilinari Lentulo e Cetego[48] ma, costretto all'esilio, non si diede pace, implorando le sue conoscenze perché favorissero il suo ritorno. Clodio, però, fece approvare anche una serie di altre leggi che prevedevano che Cicerone non si potesse neppure avvicinare al confine dell'Italia, e che le sue proprietà venissero confiscate.[49] In realtà la villa sul Colle Palatino fu addirittura distrutta, e una sorte simile toccò poco dopo a quelle di Formia e di Tusculum.[50][51] Nel 57 a.C. la situazione a Roma migliorò, allorché i nobili e Pompeo posero un freno alle iniziative di Clodio Pulcro, permettendo a Cicerone di tornare e ricominciare la sua lotta contro il tribuno della plebe.[52][53]

Simpatizzante degli optimates per via anche della sua personale amicizia con Milone, uno dei capi della fazione tenne tre orazioni in difesa di tre optimates. Nel 56 a.C. Cicerone pronunciò l'orazione Pro Sestio in cui allargava il suo precedente ideale politico: l'alleanza tra cavalieri e senatori a suo avviso non era più sufficiente per stabilizzare la situazione politica. Occorreva, quindi, un fronte comune di tutti i possidenti per opporsi alla sovversione tentata dai populares: tale proposta prende il nome di consensus omnium bonorum. Sempre lo stesso anno tenne l’orazione Pro Caelio con cui Cicerone si trova a difendere Marco Celio Rufo dall’accusa di tentato avvelenamento della sua amante, Clodia sorella del tribuno della plebe Clodio Pulcro e Lesbia di Catullo. Nonostante la donna venne dipinta come colei che per prima aveva tentato di uccidere l’amante in quanto avversario politico del fratello le accuse erano inconsistenti e Cicerone spiegò il gesto compiuto da Marco Celio Rufo come uno sbaglio di gioventù. Nel 55 a.C. scrive In Pisonem, orazione contro il governatore di Macedonia Lucio Calpurnio Pisone, suocero di Cesare. Patrizi e plebe si scontravano con l'uso di bande armate, e in uno di questi scontri, più precisamente sulla via Appia, Milone, organizzatore delle bande dei possidenti, uccise il tribuno Clodio.[54][55] Al processo per omicidio, tenutosi nel 52 a.C., Cicerone difese Milone improntando la sua orazione sulla differenza tra tirannicidio e omicidio; in questo caso sarebbe stato tirannicidio e per tanto giustificabile. Ma, non riuscendo a pronunciare il suo discorso con la giusta forza per il clamore della folla e per il timore che gli incutevano i partigiani di Clodio nel foro, Milone venne condannato all'esilio a Marsiglia (una versione della Pro Milone venne pubblicata solo successivamente, dando modo di verificare come fosse un'orazione tra le più abili e sottili sul piano giuridico).

Il mondo romano allo scoppio della guerra civile (1 gennaio 49 a.C.). Sono inoltre evidenziate le legioni distribuite per provincia
Il mondo romano allo scoppio della guerra civile (1 gennaio 49 a.C.). Sono inoltre evidenziate le legioni distribuite per provincia

Dopo essere stato nominato augure nel 53 a.C. al posto di Crasso,[56] nel 51 a.C. come proconsole si recò in Cilicia,[56] proprio mentre i rapporti tra Cesare e Pompeo si inasprivano. Durante il soggiorno lontano da Roma, i pensieri dell'oratore furono rivolti alla minaccia della guerra civile. Tornato in patria, non cessò di invitare le parti alla moderazione ed alla conciliazione, ma i suoi inviti caddero nel vuoto anche a causa del fanatismo che spingeva Pompeo all'intransigenza nei confronti delle richieste di Cesare. Quando Cesare varcò il Rubicone, Cicerone cercò di accattivarsene il favore, ma poi decise ugualmente di lasciare l'Italia per unirsi a Pompeo.[57][58] Sbarcò, dunque, a Dyrrachium, ma, raggiunti i Pompeiani, si accorse di quanto le speranze che egli riponeva in loro quali salvatori della repubblica fossero infondate: ognuno di loro era lì non in difesa degli ideali, ma soltanto per tentare di trarre profitto dalla guerra. Dopo la grande vittoria di Cesare nella battaglia di Farsalo, nel 48 a.C., Cicerone decise di tornare a Roma, dove ottenne il perdono dello stesso Cesare nel 47 a.C.[59]

Cicerone rivelava nelle sue opere ed in lettere ad amici come Cornelio Nepote, riguardo alla personalità di Cesare:

«Non vedo a chi Cesare debba cedere il passo. Ha un modo di esporre elegante, brillante ed anche, in un certo modo si pronuncia in modo elegante e splendido... Chi gli vorresti anteporre, anche tra gli oratori di professione? Chi è più acuto o ricco nei concetti? Chi più ornato o elegante nell'esposizione?»

(Svetonio, Vite dei Cesari, Cesare, 55.)

La speranza di Cicerone di collaborare al governo di Cesare venne troncata dalla piega assolutistica e monarchica presa dal potere[60]. L'oratore si ritirò, iniziando la stesura di opere di carattere filosofico ed oratorio. A questo si aggiunse il divorzio dalla moglie Terenzia e la morte della figlia Tullia, seguita dalla separazione dalla seconda moglie Publilia, una giovinetta.

Quando Cesare fu ucciso, il 15 marzo del 44 a.C., a seguito della congiura ordita da Marco Giunio Bruto e Gaio Cassio Longino, per Roma, e per lo stesso Cicerone, si avviò una nuova fase politica, che avrebbe avuto termine solo con l'avvento dell'impero.


L'opposizione ad Antonio e la morte

Cicerone non fu, certamente, colto di sorpresa dall'assassinio, da parte dei Liberatores, di Giulio Cesare: era sicuramente al corrente della congiura che si andava tessendo, ma decise sempre di tenersene al di fuori, pur manifestando una grande ammirazione per l'uomo che era destinato a divenire il simbolo stesso della congiura, Bruto. E lo stesso Bruto, infatti, con il pugnale sporco del sangue di Cesare ancora in mano, additò Cicerone definendolo l'uomo che avrebbe ristabilito l'ordine nella repubblica.[61]

Scrisse a Lucio Minucio Basilo, uno dei cesaricidi, una lettera per congratularsi dell'assassinio di Cesare:

(LA)

«Tibi gratulor, mihi gaudeo; te amo, tua tueor; a te amari et, quid agas quidque agatur, certior fieri volo.»

(IT)

«Con te mi congratulo, per me sono contento; ti sono vicino, ho cura delle tue cose; ti chiedo di volermi bene e di farmi sapere che cosa fai e che cosa succede.»

(Cicerone, Ad Familiares, vi, 15)

La data della missiva non è conosciuta, ma viene solitamente ritenuta vicinissima o coincidente alla congiura.[62] L'espressione «quid agas quidque agatur» la indicherebbe[62] come scritta prima che Cicerone si recasse al Campidoglio, dove i cospiratori avevano trovato rifugio dopo l'assassinio, asserragliati nel tempio capitolino e protetti dai gladiatori di Bruto.[63]

Cicerone, infatti, tornò ad essere anche di fatto uno dei maggiori rappresentanti della fazione degli optimates, mentre Marco Antonio, luogotenente e magister equitum di Cesare, prendeva le redini della fazione dei populares. Antonio tentò di fare in modo che il senato decidesse di organizzare una spedizione contro i Liberatores (che intanto si erano trasferiti nella penisola balcanica), ma Cicerone fu promotore di un accordo che, assicurando il riconoscimento di tutti i provvedimenti presi da Cesare nel corso della sua dittatura, garantiva l'impunità a Bruto e Cassio.[64] Poco dopo, i due, assieme agli altri congiurati, fuggirono verso la penisola ellenica.[65]

Statua di Augusto comunemente detta Augusto di Prima Porta, custodita ai Musei Vaticani.
Statua di Augusto comunemente detta Augusto di Prima Porta, custodita ai Musei Vaticani.

Tra Cicerone ed Antonio, comunque, i rapporti non erano dei migliori, e i due, d'altra parte, si trovavano all'esatto opposto in ambito politico: Cicerone era il difensore degli interessi dell'oligarchia senatoriale, convinto sostenitore della repubblica monopolizzata dai ricchi, mentre Antonio avrebbe voluto fare suoi i progetti di Cesare ed assumere gradualmente un potere monocratico.[66] Intanto, un'altra figura si andava affermando dal nulla nel panorama politico di Roma, la figura del giovane Ottaviano (destinato a diventare Augusto), pronipote di Cesare e suo erede designato nel testamento.[67][68] Ottaviano decise di adottare una politica filosenatoriale, senza mostrare nessuna volontà di imitare le mosse di Cesare.

Cicerone, allora, si schierò ancora più apertamente contro Antonio, definendo Ottaviano come vero erede politico di Cesare, e come uomo mandato dagli dèi per ristabilire l'ordine.[69] Cicerone sperava, infatti, nell'affermazione di un giovane princeps in re publica che, assistito da un membro del senato di grande esperienza, come lo stesso Cicerone, riportasse la pace e riformasse la repubblica.[70] Iniziò, inoltre, tra il 44 a.C. e il 43 a.C., a pronunciare contro Antonio una serie di orazioni, note con il nome di Filippiche in quanto richiamavano quelle omonime pronunciate da Demostene contro Filippo II di Macedonia. Intanto, Antonio, nella volontà di condurre una nuova guerra in Gallia per accrescere il proprio prestigio, decise di marciare contro Decimo Giunio Bruto Albino, governatore della Gallia Cisalpina, e lo assediò nella città di Modena. Qui Antonio fu però raggiunto dagli eserciti consolari guidati da Aulo Irzio, Gaio Vibio Pansa e dallo stesso Ottaviano, che lo sconfissero.[71]

Tornato a Roma, Ottaviano si trovò nella situazione di dover scegliere tra il totale abbandono della politica cesariana, che avrebbe tenuto in vita l'agonizzante repubblica, e l'allontanamento dal Senato, al quale rischiava di asservirsi totalmente.[72] Scelse di proseguire almeno in parte la politica cesariana, e costituì, assieme ad Antonio e a Marco Emilio Lepido, il secondo triumvirato, un accordo politico secondo il quale i tre uomini avrebbero dovuto compiere una profonda opera di riforma della repubblica.[73] Cicerone fu costretto ad accettare che sarebbe ora stato impossibile attuare il suo piano di un princeps, ma non per questo ritirò le severe accuse rivolte ad Antonio nelle Filippiche. Quest'ultimo, allora, nonostante la fievole opposizione di Ottaviano, decise di inserire Cicerone nelle liste di proscrizione, decretando, così, la sua condanna a morte.[74]

Cicerone lasciò allora Roma e si ritirò nella sua villa di Formia, che aveva ricostruito dopo gli episodi legati a Clodio. A Formia, però, fu raggiunto da alcuni sicari inviati da Antonio, che, aiutati da un liberto di nome Filologo,[75] poterono trovarlo fin troppo facilmente. Cicerone, accortosi dell'arrivo dei suoi assassini, non tentò di difendersi, ma si rassegnò alla sua sorte, e venne decapitato. Tale località prese il nome di Vindicio (dal latino "vindicta", vendetta), attuale frazione di Formia.[76] Una volta ucciso, per ordine di Antonio, gli furono tagliate anche le mani (o forse soltanto la mano destra, usata per scrivere ed indicare durante i discorsi), con cui aveva scritto le Filippiche,[77] che furono esposte in senato insieme alla testa, appese ai rostri che si trovavano sopra la tribuna da cui i senatori tenevano le loro orazioni, come monito per gli oppositori del triumvirato.[78][79]

(LA)

«Prominenti ex lectica praebentique immotam cervicem caput praecisum est. Nec satis stolidae crudelitati militum fuit: manus quoque scripsisse aliquid in Antonium exprobrantes praeciderunt.»

(IT)

«Sporgendosi dalla lettiga ed offrendo il collo senza tremare, gli fu recisa la testa. E ciò non bastò alla sciocca crudeltà dei soldati: essi gli tagliarono anche le mani, rimproverandole di aver scritto qualcosa contro Antonio.»

(Livio - Ab Urbe condita libri, CXX - cit. in Seneca il Vecchio, Suasoriae, 6,17)
(GRC)

«Αὐτὸς δ' ὥσπερ εἰώθει τῇ ἀριστερᾷ χειρὶ τῶν γενείων ἁπτόμενος, ἀτενὲς ἐνεώρα τοῖς σφαγεῦσιν, αὐχμοῦ καὶ κόμης ἀνάπλεως καὶ συντετηκὼς ὑπὸ φροντίδων τὸ πρόσωπον, ὥστε τοὺς πλείστους ἐγκαλύψασθαι τοῦ Ἑρεννίου σφάζοντος αὐτόν. Ἐσφάγη δὲ τὸν τράχηλον ἐκ τοῦ φορείου προτείνας, ἔτος ἐκεῖνο γεγονὼς ἑξηκοστὸν καὶ τέταρτον. Τὴν δὲ κεφαλὴν ἀπέκοψαν αὐτοῦ καὶ τὰς χεῖρας, Ἀντωνίου κελεύσαντος, αἷς τοὺς Φιλιππικοὺς ἔγραψεν. Αὐτός τε γὰρ ὁ Κικέρων τοὺς κατ' Ἀντωνίου λόγους Φιλιππικοὺς ἐπέγραψε, καὶ μέχρι νῦν Φιλιππικοὶ καλοῦνται.»

(IT)

«Ed egli, come era solito, toccandosi le guance con la mano sinistra, impassibilmente rivolse lo sguardo ai sicari, ricoperto dal sudore e dalla capigliatura e disfatto nel volto dalle preoccupazioni, tanto che i più si coprirono il volto mentre Erennio lo uccideva. E fu ucciso mentre sporgeva il collo dalla lettiga, quando quello che trascorreva era il suo sessantaquattresimo anno. E, per ordine di Antonio, tagliarono la sua testa e le sue mani, con le quali aveva scritto le Filippiche. Cicerone stesso infatti intitolò Filippiche le orazioni contro Antonio e tuttora sono chiamate Filippiche.»

(Plutarco, Vite parallele, Vita di Cicerone, 48, 4-6)

Una volta sconfitto Antonio, Ottaviano scelse Marco, figlio di Cicerone, come collega per il consolato, e proprio Marco comminò le pene di Antonio, facendone abbattere le statue e decretando che nessun membro della gens Antonia avrebbe più potuto essere chiamato Marco.[80]

Plutarco racconta che quando, tempo dopo, insignito del titolo di Augusto, Ottaviano trovò un nipote che leggeva le opere di Cicerone, gli prese il libro, e ne lesse una parte. Una volta che glielo ebbe restituito, disse: "Era un saggio, ragazzo mio, un saggio, e amava la patria".[81]


Vita privata



Matrimoni


Cicerone probabilmente sposò Terenzia all'età di 29 anni, nel 77 a.C. Il matrimonio - di convenienza - fu piuttosto armonioso per 30 anni. Terenzia era di famiglia patrizia ed era una ricca ereditiera, entrambi fattori particolarmente importanti per il giovane ambizioso che era Cicerone. Da Terenzia Cicerone avrà due figli: il primo Marco Tullio Cicerone, che come il padre diventerà un politico a Roma, la seconda Tullia o «la dolce Tulliola», come appunto viene descritta da Cicerone in una delle sue innumerevoli lettere; ella si sposò prima con un Pisone Frugi e poi in seconde nozze con Publio Cornelio Dolabella dal quale divorzierà perché il padre sosteneva la fazione degli ottimati mentre Dolabella era luogotenente di Cesare, infine morirà molto giovane all'età di 34 anni. Una delle sorelle o cugina di Terenzia era stata scelta come vergine Vestale, il che costituiva un grandissimo onore. Terenzia era una donna dal carattere forte e prese parte alla carriera politica di suo marito più di quanto permise a lui di prenderne negli affari di famiglia. Non condivise, tuttavia, gli interessi intellettuali di Cicerone né il suo agnosticismo. Cicerone lamenta a Terenzia in una lettera scritta durante il suo esilio in Grecia che «...né gli dei che Lei ha adorato con tale devozione né gli uomini che io ho servito hanno mostrato il più piccolo segno di gratitudine nei nostri confronti».[82] Terenzia era una donna devota e probabilmente piuttosto materialista.

Alla fine del 47 a.C. o all'inizio del 46 a.C. Cicerone ripudiò Terenzia.[83] I motivi del distacco sono ignoti, ma Cicerone accusò la moglie di averlo trascurato durante la guerra, di non essere neppure venuta ad accoglierlo al suo ritorno e di avergli restituito la casa gravata di forti debiti.[84]

Verso la fine del 46 a.C. Cicerone sposò Publilia, giovane e ricca fanciulla orfana di padre, che viveva sola con la madre.[85] Secondo Terenzia (che accusava Publilia di essere la causa del suo divorzio), la giovinezza della fanciulla avrebbe causato l'innamoramento di Cicerone, mentre secondo Tirone, liberto dell'oratore, dietro la decisione ci sarebbe stato il desiderio di usufruire dei beni della giovane[86]; Cicerone peraltro era già stato nominato tutore di Publilia, e ne amministrava le ricchezze.[87] Poco dopo il matrimonio, Tullia, figlia di Cicerone, morì di parto.[88] Egli rimase fortemente colpito e nel luglio del 45 a.C., mentre gli amici gli recavano conforto, decise di ripudiare Publilia colpevole di essersi rallegrata della morte di Tullia, dopo soli sette mesi di matrimonio.[89]

Il divorzio dalla storica consorte Terenzia e le seconde nozze con Publilia, destinate anch'esse alla rottura, resero Cicerone oggetto di feroci critiche, come quelle rivoltegli da Antonio nelle repliche alle Filippiche.

Entrambe le mogli di Cicerone morirono in tardissima età, cosa insolita per quei tempi (Terenzia addirittura centenaria; in quanto a Publilia, era ancora viva durante l'impero di Tiberio, avendo sposato in seconde nozze il console Gaio Vibio Rufo, secondo quanto afferma Cassio Dione).


Prole


È universalmente noto l'amore di Cicerone per la figlia Tullia, sebbene il matrimonio con Terenzia, da cui lei era nata, fosse stato un matrimonio di convenienza. Tullia era l'unica persona che Cicerone non criticò mai. La descrive così in una lettera al fratello Quinto: «Com'è affettuosa, com'è modesta, com'è intelligente!»[82] Quando lei si ammalò improvvisamente nel febbraio del 45 a.C. e morì, dopo che era sembrato che potesse guarire, dando alla luce un figlio, Cicerone scrisse ad Attico: «Ho perso l'unica cosa che mi legava alla vita».[17]

Attico invitò Cicerone ad andarlo a trovare nelle prime settimane dopo la morte di Tullia per poterlo consolare. Nella grande biblioteca di Attico, Cicerone lesse tutto quello che i filosofi greci avevano scritto circa il superamento del dolore, «...ma il mio dolore sconfigge ogni consolazione».[90] Cesare e Bruto gli spedirono lettere di condoglianze, e così fece anche il suo vecchio amico e collega, l'avvocato Servio Sulpicio Rufo. Questi spedì una lettera che in seguito è stata molto apprezzata, piena di riflessioni sulla fugacità di tutte le cose.

Dopo un po', Cicerone decise di abbandonare ogni compagnia per ritirarsi in solitudine nella sua villa di Astura, appena acquistata. Si trovava in un bosco solitario, ma non lontano da Napoli, e per molti mesi non fece altro che camminare per il bosco, piangendo. Scrisse ad Attico: «Io mi immergo là nel bosco selvatico e fitto la mattina presto, e vi soggiorno fino a sera».[17] Più tardi decise di scrivere un libro per insegnare a se stesso come superare il dolore; questo libro, intitolato Consolatio, fu estremamente apprezzato in antichità (in particolare da Sant'Agostino), ma sfortunatamente è andato perduto, e ne restano solo pochi frammenti. In seguito Cicerone progettò anche di far erigere un piccolo tempio alla memoria di Tullia, la "sua incomparabile" figlia, ma poi non portò a termine il progetto, per ragioni ignote.

Cicerone sperava che il figlio Marco scegliesse di diventare filosofo come lui, ma era un'aspettativa priva di basi: Marco, per conto suo, desiderava intraprendere la carriera militare, e nel 49 a.C. si unì a Pompeo ed al suo esercito, e partì con loro per la penisola ellenica. Quando nel 48 a.C., dopo la disastrosa sconfitta dei pompeiani a Farsalo, Marco si presentò a Cesare, questi lo perdonò. Cicerone, allora, non perse tempo, e lo mandò ad Atene a formarsi nella scuola del filosofo peripatetico Cratippo, ma Marco, ben distante dall'occhio vigile del padre, passò il tempo a mangiare, bere e divertirsi, seguendo le lezioni del retore Gorgia.

Dopo l'assassinio del padre, Marco si unì all'esercito dei Liberatores, guidati da Marco Giunio Bruto e Gaio Cassio Longino, ma dopo la sconfitta nella battaglia di Filippi, nel 42 a.C., fu perdonato da Ottaviano. Questi, infatti, sentendosi in colpa per aver permesso che Cicerone fosse inserito nelle liste di proscrizione del secondo triumvirato decise di favorire la carriera del giovane Marco. Quest'ultimo divenne, dunque, augure, e fu poi nominato prima console nel 30 a.C. assieme allo stesso Ottaviano, e poi proconsole in Siria e nella provincia d'Asia.


L'umorismo ciceroniano[91]



Cicerone politico


Lo stesso argomento in dettaglio: Pensiero politico di Cicerone.
Busto di Cicerone
Busto di Cicerone
(LA)

«Potestas in populo, auctoritas in senatu»

(IT)

«Il potere è del popolo, l'autorità del senato»

(Marco Tullio Cicerone, De Legibus,3,12)

Come uomo politico, Cicerone è sempre stato bersaglio della critica di antichi e moderni. Le accuse mossegli vanno dall'incoerenza alla vanità, alla poca lungimiranza. Ma la sua conduzione oggettivamente può essere giustificata se la si contestualizza nella politica del tempo, fatta in un mobile gioco di accordi e conflitti tra gruppi di potere e famiglie nobili, che sfruttavano le etichette di partito per mire personali.

«Cicerone era attaccato al governo repubblicano per tradizione e per ricordo, rammentando le grandi cose che esso aveva fatto e a cui egli, come molte altre persone, doveva le sue dignità, il suo grado sociale e il nome. Non poteva dunque pensare a rassegnarsi così facilmente alla sua caduta, anche se la libertà effettiva non esisteva più a Roma, e non ne restava che l'ombra. Non bisogna biasimare coloro, come Cicerone, che vi s'attaccano e fanno sforzi disperati per non lasciarla perire, poiché quest'ombra, questa apparenza li consola della libertà perduta e infonde loro qualche speranza di riconquistarla. Questo era ciò che pensavano i Romani che, come Cicerone, dopo matura riflessione, senza entusiasmo, senza passione, e senza speranza, andarono a raggiungere Pompeo»; questo è ciò che Lucano fa dire a Catone in quei versi ammirevoli che esprimono i sentimenti di tutti coloro che, senza nascondere la triste condizione della Repubblica, si ostinarono a difenderla fino alla fine: «Come un padre, che ha or ora perduto il figlio, prova una sorta di piacere a dirigere i riti funebri, accende con le sue mani il rogo, non lo lascia che a malincuore e il più tardi possibile, così, Roma, io non t'abbandonerò prima di averti tenuta morta tra le mie braccia. Io seguirò fino alla fine il tuo solo nome, o libertà, anche quando non sarai più che un'ombra vana».[92]

Preoccupazione costante di Cicerone fu la difesa dello status quo e dei diritti della grande proprietà latifondista, desideroso soprattutto di acquisire presso i notabili romani il credito necessario per entrare a far parte della classe dirigente. Egli si adoperò quindi per la conservazione del potere e dei privilegi di cui godeva la classe degli optimates, secondo una formula che, in sostanza, significava sicurezza e tranquillità (otium) per tutti i possidenti, e che implicava che il potere (dignitas) rimanesse nelle mani di un'oligarchia.
Il suo preteso desiderio che in questa élite si entrasse per "merito" e non per nascita, quand'anche non lo si voglia meramente intendere come un sottinteso riferimento alle sue vicende personali, rimase comunque un'astrazione teorica, un'utopia, anche per l'assenza, allora come oggi, di una vera modifica nel tessuto politico e sociale della Repubblica.[93]

Cicerone fu, inoltre, sostenitore dell'ideale politico della concordia ordinum (intesa tra il ceto equestre e senatorio divenuta poi concordia omnium bonorum, ovvero concordia di tutti i cittadini onesti), e la esaltò, in particolare, nella quarta orazione contro Catilina: allora, per la prima volta nella storia tardo repubblicana, i senatori, i cavalieri ed il popolo si trovarono d'accordo sulle decisioni da prendere, decisioni dalle quali dipendeva la salvezza dello stato. Cicerone auspicava che la concordia potesse durare per sempre, pur capendo che essa era nata, in quel particolare frangente, solo per la pressione emotiva: d'altronde, la concordia non faceva leva su un particolare progetto politico, ma solamente su motivi di carattere sentimentale ed economico.[94]


Cicerone filosofo


Per le opere, vedi l'apposita sezione


La filosofia prima di Cicerone


Ritratto di Cicerone
Ritratto di Cicerone

Cicerone fu il primo degli autori romani a comporre opere filosofiche in latino: ne andava, infatti, molto fiero, ma si scusava, allo stesso tempo, di aver dedicato alla filosofia così tanto tempo.[15] Alcuni, infatti, ritenevano che fosse disdicevole per un uomo romano dedicarsi alla filosofia, altri pensavano che comunque non bisognasse dedicarle più di un certo tempo. Altri ancora, infine, erano convinti sostenitori della totale superiorità della filosofia greca e consideravano per l'appunto solo le opere greche degne di essere lette.[95]

Cicerone era però convinto che, se i Romani si fossero dedicati seriamente alla filosofia, avrebbero allora raggiunto le stesse vette dei Greci, che già avevano eguagliato nella retorica. Ma il gusto per le speculazioni filosofiche era totalmente estraneo alla società romana: il vir era, d'altronde, un uomo d'azione. I Romani conobbero la filosofia grazie al contatto con i Greci, ma consideravano inutile, se non addirittura deleteria, una vita spesa alla continua ricerca di un sapere che non portava nessuna gloria alla patria né alcuna ricchezza. Il Senato arrivò, infatti, addirittura ad espellere dall'Urbe i filosofi ateniesi che vi erano giunti in visita nel 155 a.C., Carneade, Diogene e Critolao.[95]

La stessa nobilitas senatoriale non voleva, poi, che il popolo e i giovani si interessassero alla filosofia (che avrebbe prodotto in loro un certo amore per l'otium, allontanandoli dalla vita reale), ma furono costretti ad ammettere che nessun uomo degno di tale nome poteva restare estraneo a questa scienza. I senatori decisero di richiamare a Roma i filosofi che avevano scacciato per prendere da loro delle vere e proprie lezioni di filosofia, vietando, comunque, loro di insegnare la filosofia pubblicamente. Persino Marco Porcio Catone, fiero oppositore della penetrazione della cultura greco-ellenistica a Roma,[96] studiò la filosofia greca, come tutti gli esponenti dell'oligarchia senatoriale del tempo.[95]

A riscuotere un istantaneo successo a Roma fu lo stoicismo, ma presto ad esso si unirono le altre dottrine, i cui esponenti arrivarono "in massa" a Roma nel corso del I secolo a.C. In poco tempo, dunque, la situazione aveva subito un totale ribaltamento e non esisteva più uomo estraneo alla filosofia.[95]


Formazione filosofica di Cicerone


Cicerone non si comportò diversamente dai suoi contemporanei, ma, almeno in gioventù, studiò la filosofia convinto che si trattasse esclusivamente di un valido supporto per la retorica: iniziò a comporre opere filosofiche, infatti, soltanto in tarda età, quando solo la composizione, appunto, poteva essere l'impiego del suo tempo libero. Nella filosofia Cicerone cercò e seppe trovare la consolazione di cui aveva bisogno, il rimedio somministratogli dall'antica saggezza.[95]

Da giovane, Cicerone studiò d'impulso l'epicureismo, dottrina che aveva avuto numerosi discepoli anche a Roma, tra cui Amafinio, Cazio e Lucrezio. In principio, Cicerone fu, infatti, allievo di filosofi epicurei, quali Fedro e Zenone. Più tardi, sotto l'influsso di altri maestri, abbracciò, almeno in parte, lo stoicismo, ma non ne fu mai un convinto sostenitore: come altri al suo tempo, elaborò una personale fusione tra le due filosofie, in modo eclettico.[95] Mostrò, tuttavia, forti preferenze per la dottrina accademica insegnatagli da Filone: la teoria del probabilismo e del verosimile si adattavano perfettamente ad una personalità quale quella di Cicerone, a cui si addiceva perfettamente anche l'elevazione morale dello stoicismo. Questa particolare mescolanza fra più filosofie fu la vera filosofia di Cicerone.[95]


Opere


Lo stesso argomento in dettaglio: Storia della letteratura latina (78 - 31 a.C.).
Marci Tullii Ciceronis Opera Omnia, 1566
Marci Tullii Ciceronis Opera Omnia, 1566

Scritti filosofici


Frontespizio di una stampa del De officiis; Christopher Froschouer, 1560
Frontespizio di una stampa del De officiis; Christopher Froschouer, 1560

Le opere filosofiche di Cicerone costituiscono un'importante fonte su teorie filosofiche ellenistiche poco documentate direttamente. In particolare gli Academica sono una testimonianza essenziale sullo scetticismo della media Accademia. In molti casi Cicerone traduce per la prima volta in latino termini filosofici greci.[97] Ad esempio i termini probabile e probabilità, usati con leggere varianti in tutte le lingue occidentali per indicare concetti filosofici e scientifici, traggono il loro significato attuale dalla scelta di Cicerone di tradurre con il latino probabilis il termine πιθανὸς (pithanòs), nel senso in cui esso è usato da Carneade.[98]


Panoramica alfabetica di tutte le opere filosofiche


Orazioni


Cicerone mentre pronuncia un'orazione in Senato. Particolare, Cesare Maccari, 1882-1888, Villa Madama, Roma.
Cicerone mentre pronuncia un'orazione in Senato. Particolare, Cesare Maccari, 1882-1888, Villa Madama, Roma.
(LA)

«In principiis dicendi tota mente atque artubus contremisco.»

(IT)

«All'inizio di un discorso mi tremano le gambe, le braccia e la mente.»

(Marco Tullio Cicerone)

Cicerone è certamente il più celebre oratore dell'antica Roma.[101][102] Nel Brutus egli ritiene completato con se stesso (non senza un certo fine autocelebrativo) lo sviluppo dell'arte oratoria latina, e già da Quintiliano la fama di Cicerone quale modello classico dell'oratore è ormai incontrastata. Cicerone ha pubblicato da sé la maggior parte dei suoi discorsi; cinquantotto orazioni (alcune parzialmente lacunose) le abbiamo ricevute nella versione originale, circa 100 sono conosciute per il titolo o per alcuni frammenti. I testi si possono dividere grosso modo tra orazioni pronunciate di fronte al Senato o al popolo e tra le arringhe pronunciate in qualità di - utilizzando termini moderni - avvocato difensore o pubblica accusa, nonostante anche questi ultimi abbiano spesso un forte substrato politico, come nel celeberrimo caso contro Gaio Verre, unica volta in cui Cicerone compare come accusatore in un processo penale. Il suo successo è dovuto alla sua abilità argomentatoria e stilistica, che si sa adattare perfettamente all'oggetto dell'orazione e al pubblico,[103] soprattutto alla sua tattica astuta, che si adatta di volta in volta al particolare uditorio, appoggiando appropriatamente diverse scuole filosofiche o politiche, al fine di convincere il pubblico contrario e raggiungere il proprio scopo.


Tecniche di memorizzazione

Per memorizzare i suoi discorsi Cicerone utilizzava una tecnica associativa che venne chiamata tecnica dei loci o tecnica delle stanze.[104] Egli scomponeva il discorso in parole chiave e parole concetto che gli permettessero di parlare dell'argomento desiderato e associava queste parole, nell'ordine desiderato, alle stanze di una casa o di un palazzo che conosceva bene, in modo creativo e insolito. Durante l'orazione egli immaginava di percorrere le stanze di quel palazzo o di quella casa, e questo faceva sì che le parole concetto del suo discorso gli venissero in mente nella sequenza desiderata. È da questo metodo di memorizzazione che derivano le locuzioni italiane "in primo luogo", "in secondo luogo" e così via.


Panoramica alfabetica di tutte le orazioni

Miniatura quattrocentesca del De oratore.
Miniatura quattrocentesca del De oratore.

Scritti di retorica


Lo stesso argomento in dettaglio: Retorica latina.

Così come per Cicerone è difficile distinguere tra vita ed opere, così in particolare differenziare tra scritti filosofici e retorici è sì pratico e chiaro, tuttavia non rappresenta pienamente la concezione e l'opinione di Cicerone. Già nella sua prima opera conservata (De inventione I 1-5) chiarisce che la sapienza, l'eloquenza e l'arte del governare hanno sviluppato un legame naturale, che indubbiamente ha contribuito allo sviluppo della cultura degli uomini e che dev'essere ristabilito. Egli ha in mente quest'unità come modello ideale sia negli scritti teoretici sia anche nella sua propria vita activa al servizio della Repubblica - o almeno è così che egli ha voluto idealizzare e vedere la propria realtà.

Perciò non è affatto sorprendente se Cicerone ha sviluppato i suoi scritti filosofici con i mezzi della retorica e strutturato le sue teorie della retorica su principi filosofici. La separazione tra sapienza ed eloquenza Cicerone l'addossa alla "rottura tra linguaggio e intelletto" compiuta dalla filosofia socratica (De oratore III 61) e tenta attraverso i suoi scritti di "risanare" questa frattura; e quindi per una migliore attuazione la filosofia e la retorica secondo lui devono essere dipendenti l'una dall'altra (v. p.e. De oratore III 54-143); Cicerone stesso dichiara che "io sono diventato un oratore [...] non nelle scuole dei retori ma nei saloni dell'Accademia": con ciò allude alla sua formazione sulle dottrine della Nuova Accademia di Carneade e Filone di Larissa, suo maestro.


Panoramica alfabetica delle opere sulla retorica pervenuteci


Opere perdute


Tra le opere tardive di Cicerone si possono annoverare scritti consolatori, contributi alla storiografia, poesie (alcune anche sul suo periodo di consolato) e traduzioni. Queste opere sono per la maggior parte perdute. Delle poesie ci rimangono comunque svariate citazioni anche in altri lavori dello stesso Cicerone. Questi frammenti dimostrano l'influenza di uno dei più importanti poeti latini, Catullo e di altri neoterici.


Panoramica alfabetica delle opere poetiche ed epico-storiche di Cicerone



Epistolario


Edizione delle Epistole agli amici, Venezia 1547
Edizione delle Epistole agli amici, Venezia 1547

Le epistole di Cicerone furono riscoperte tra il 1345 e il 1389 da Petrarca e dal cancelliere e umanista Coluccio Salutati. Complessivamente furono ritrovate circa 864 lettere, delle quali una novantina furono scritte da corrispondenti, e ciò inizialmente provocò un grande entusiasmo, temperato successivamente dal fatto che l'immagine che traspariva di Cicerone non era quella dello strenuo eroe difensore della Repubblica, come si era sempre dipinto nelle sue opere e nelle sue orazioni, ma una versione molto più umana, con le sue debolezze e i suoi aspetti meno retorici, ma certamente affascinanti nella loro genuinità.

Le epistole furono raccolte e archiviate dal segretario di Cicerone, Tirone, fra il 48 e il 43 a.C. Si dividono in 4 categorie:


Memoria


Presente in tutto il Medioevo, il ricordo di Cicerone fiorì durante il Rinascimento[105]; Giovanni I di Brandeburgo principe elettore del Brandeburgo nel XV secolo, venne ricordato, dopo la sua morte, con l'appellativo di Cicerone, proprio a causa della sua eloquenza.

Negli Stati Uniti d'America vi sono ben quattro città cui è stato dato il nome "Cicero" in onore di Marco Tullio Cicerone. Inoltre l'espressione latina Cicero pro domo sua viene utilizzata per descrivere chi parla sostenendo il proprio tornaconto, ma che maschera più o meno bene il fine del suo discorso come perorazione per altra causa. Essa deriva da un'orazione tenuta da Marco Tullio nel 57 a.C. per ottenere la restituzione della propria casa, requisitagli durante l'esilio.[106]

Il nome di Cicerone è diventato un'antonomasia per indicare la guida che accompagna i turisti nella visita a monumenti e luoghi illustrando loro ciò che stanno visitando.[106] Parimenti con il nome Cicerone vengono identificate le marche da bollo, di diverso valore (e colore), ma tutte riportanti l'effigie del busto di Marco Tullio Cicerone, da apporre agli atti giudiziari, il cui ricavato alimenta il Fondo di previdenza degli avvocati.[106]


Note


  1. Plutarco, Vita di Cicerone, 40, 2.
  2. Plutarco, Vita di Cicerone, 2, 1.
  3. Dionigi Antonelli, Abbazie, prepositure e priorati benedettini nella diocesi di Sora nel Medioevo, Pontificia Università Lateranense, Roma, 1986, pp.212-213
  4. Luigi Loffredo, S. Domenico di Sora e i luoghi natali di Cicerone, Tipografia dell’Abbazia di Casamari, Veroli 1981, pp. 19-24
  5. Narducci 2009, p. 19.
  6. Rawson, p. 1.
  7. Rawson, pp. 7-8.
  8. Rawson, pp. 2-3.
  9. Plutarco, Vita di Cicerone, 1, 1.
  10. Plutarco, Vita di Cicerone, 1, 3-5.
  11. Plutarco, Vita di Cicerone, 2, 2.
  12. Plutarco, Vita di Cicerone, 3, 2.
  13. Rawson, pp. 14-15.
  14. Plutarco, Vita di Cicerone, 2, 3.
  15. Rawson, p. 18.
  16. Plutarco, Vita di Cicerone, 4, 5.
  17. Cicerone, Lettere ad Attico
  18. Plutarco, Vita di Cicerone, 3, 5.
  19. Rawson, p. 22.
  20. Plutarco, Vita di Cicerone, 3, 6.
  21. Haskell, p. 83.
  22. Plutarco, Vita di Cicerone, 4, 1-2.
  23. Rawson, p. 27.
  24. Plutarco, Vita di Cicerone, 5, 1.
  25. Plutarco, Vita di Cicerone, 6, 1.
  26. Plutarco, Vita di Cicerone, 7, 3.
  27. Plutarco, Vita di Cicerone, 7, 4.
  28. Plutarco, Vita di Cicerone, 7, 5-7.
  29. Plutarco, Vita di Cicerone, 7, 8.
  30. Plutarco, Vita di Cicerone, 8, 2.
  31. Plutarco, Vita di Cicerone, 9, 1.
  32. Plutarco, Vita di Cicerone, 9, 4-7.
  33. Plutarco, Vita di Cicerone, 10, 1.
  34. Plutarco, Vita di Cicerone, 11, 2.
  35. Plutarco, Vita di Cicerone, 12, 2.
  36. Sallustio, De Catilinae coniuratione, 5
  37. Plutarco, Vita di Cicerone, 10, 3-4.
  38. Plutarco, Vita di Cicerone, 16, 2.
  39. Sallustio, De Catilinae coniuratione, 29,2
  40. Plutarco, Vita di Cicerone, 15, 5.
  41. Sallustio, De Catilinae coniuratione, 28,1-3
  42. Sallustio, De Catilinae coniuratione, 31,6
  43. Plutarco, Vita di Cicerone, 16, 4-5.
  44. Sallustio, De Catilinae coniuratione, 32,1
  45. Plutarco, Vita di Cicerone, 16, 6.
  46. Rawson, p. 106.
  47. Plutarco, Vita di Cicerone, 28, 2 - 29, 1.
  48. Plutarco, Vita di Cicerone, 30, 5.
  49. Plutarco, Vita di Cicerone, 32, 1.
  50. Plutarco, Vita di Cicerone, 33, 1.
  51. Haskell, p. 201.
  52. Plutarco, Vita di Cicerone, 33, 7.
  53. Haskell, p. 204.
  54. Plutarco, Vita di Cicerone, 35, 1.
  55. Rawson, p. 329.
  56. Plutarco, Vita di Cicerone, 36, 1.
  57. Plutarco, Vita di Cicerone, 38, 1.
  58. Everitt, p. 215.
  59. Plutarco, Vita di Cicerone, 39, 4-5.
  60. Svetonio, Vite dei Cesari, Gaio Giulio Cesare, 9.
  61. Cicerone, Seconda Filippica
  62. Frank Frost Abbott, Commentary on Selected Letters of Cicero.
  63. Appiano, Guerra civile. ii, 120 - ii, 122.
  64. Plutarco, Vita di Cicerone, 42, 3.
  65. Plutarco, Vita di Cicerone, 42, 5.
  66. Plutarco, Vita di Cicerone, 43, 1.
  67. Plutarco, Vita di Cicerone, 43, 8.
  68. Svetonio, Vite dei Cesari, Augusto 83,2
  69. Plutarco, Vita di Cicerone, 44, 3-7.
  70. Plutarco, Vita di Cicerone, 44, 1-2.
  71. Plutarco, Vita di Cicerone, 45, 4.
  72. Plutarco, Vita di Cicerone, 45, 5-6.
  73. Plutarco, Vita di Cicerone, 46, 2.
  74. Plutarco, Vita di Cicerone, 46, 3-6.
  75. Plutarco, Vita di Cicerone, 48, 2.
  76. Plutarco, Vita di Cicerone, 48, 5.
  77. Plutarco, Vita di Cicerone, 48, 6.
  78. Plutarco, Vita di Cicerone, 49, 1-2.
  79. Lucio Anneo Seneca il vecchio, Suasoriae, trascrizione di un frammento di Tito Livio, Ab Urbe condita libri, 120
  80. Plutarco, Vita di Cicerone, 49, 6.
  81. Plutarco, Vita di Cicerone, 49, 5.
  82. Cicerone, Lettere ai familiari
  83. Plutarco, Vita di Cicerone, 41, 2.
  84. Plutarco, Vita di Cicerone, 41, 3.
  85. Cicerone, Lettere ad Attico,12,18b,2
  86. Plutarco, Vita di Cicerone, 41, 4.
  87. Plutarco, Vita di Cicerone, 41, 5.
  88. Plutarco, Vita di Cicerone, 41, 7.
  89. Plutarco, Vita di Cicerone, 41, 8.
  90. Cicerone, Lettere ad Attico, 12,14
  91. Francesca Boldrer, ORATORIA E UMORISMO LATINO IN CICERONE: IDEE PER L’INVENTIO TRA ARS E TRADIZIONE.
  92. Lucano, Pharsalia, II,300
  93. Risari, E. Lo scontro politico: i "populares", in Cicerone, Le Catilinarie, Mondadori
  94. E. Risari, L'ideale politico: la "concordia ordinum", in: Cicerone, Le Catilinarie, Mondadori
  95. L. Perelli, Il pensiero politico di Cicerone. Tra filosofia greca e ideologia aristocratica romana.
  96. Tito Livio, Ab Urbe condita libri, XXXIX,40
  97. Vedere: Claudio Moreschini, "Osservazioni sul lessico filosofico di Cicerone", Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia, Serie III, Vol. 9, No. 1 (1979), pp. 99-178 e Alain Michel, "Cicéron et la langue philosophique : problèmes d'éthique et d'esthétique", in: La langue latine, langue de la philosophie, Actes du colloque de Rome (17-19 mai 1990), Rome : École Française de Rome, 1992. pp. 77-89.
  98. Le notizie riguardanti le opere di Cicerone sono tratte dalle opere stesse
  99. Perelli, p. 152.
  100. Perelli, p. 149.
  101. Rawson, p. 303.
  102. Haskell, pp. 300-301.
  103. Cicerone, Orator
  104. Janet Coleman, Ancient and Medieval Memories: Studies in the Reconstruction of the Past, Cambridge University Press, 1992, Capitolo 3: Cicero, pp. 39-59.
  105. Virginia Cox, John O. Ward (eds.), The Rhetoric of Cicero in Its Medieval And Early Renaissance Commentary Tradition, 2006.
  106. Voce de: Il Vocabolario Treccani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, vol. I, 1997

Bibliografia



Fonti primarie


Per le opere dello stesso Cicerone si vedano le apposite sezioni


Fonti secondarie



Filosofia



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Predecessore Fasti consulares Successore
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Gaio Marcio Figulo
63 a.C.
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[de] Marcus Tullius Cicero

Marcus Tullius Cicero (Aussprache im Deutschen .mw-parser-output .IPA a{text-decoration:none}[ˈt͡sɪt͡seʁo], auch [ˈt͡siːt͡seʁo], in klassischem Latein [ˈkɪkɛroː]; * 3. Januar 106 v. Chr. in Arpinum; † 7. Dezember 43 v. Chr. bei Formiae) war ein römischer Politiker, Anwalt, Schriftsteller und Philosoph, der berühmteste Redner Roms und Konsul im Jahr 63 v. Chr.
- [it] Marco Tullio Cicerone

[ru] Цицерон

Марк Ту́ллий Цицеро́н (лат. Marcus Tullius Cicero; родился 3 января 106 года до н. э., Арпинум, Римская республика — убит 7 декабря 43 года до н. э., Формии, Римская республика) — римский государственный и политический деятель республиканского периода, оратор, философ, учёный.



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