Quinto Orazio Flacco, noto più semplicemente come Orazio (in latino: Quintus Horatius Flaccus; Venosa, 8 dicembre 65 a.C. – Roma, 27 novembre 8 a.C.), è stato un poeta romano.
Orazio nacque l'8 dicembre del 65 a.C. a Venosa, colonia romana fondata in posizione strategica tra Apulia e Lucania, allora in territorio dauno e attualmente in Basilicata. Fu figlio di un fattore liberto che si trasferì poi a Roma per fare l'esattore delle aste pubbliche (coactor auctionarius), compito poco stimato, ma redditizio; il poeta era dunque di umili origini, ma di buona condizione economica.
Recepì le prime nozioni di favolistica dalla nutrice Pullia, che amava raccontare le fiabe. Dopo aver trascorso la fanciullezza nella terra natia,[1] Orazio seguì un regolare corso di studi a Roma, sotto l'insegnamento del grammatico Orbilio e poi ad Atene, all'età di circa vent'anni, dove studiò greco e filosofia presso Cratippo di Pergamo. Qui entrò in contatto con la lezione epicurea, ma, sebbene se ne sentisse particolarmente attratto, decise di non aderire alla scuola. Sarà all'interno dell'ambiente romano che Orazio aderirà alla corrente, la quale gli permise di trovare un rifugio nell'otium contemplativo. Il poeta espresse la sua gratitudine verso il padre in un tributo nelle Satire (I, 6).
Dopo la morte di Cesare, quando scoppiò la guerra civile, Orazio si arruolò nell'esercito di Bruto, nel quale il poeta incarnò il proprio ideale di libertà in antitesi alla tirannide imperante. Combatté come tribuno militare[2] nell'esercito repubblicano comandato da Bruto nella battaglia di Filippi (42 a.C.), persa dai sostenitori di Bruto e vinta da Marco Antonio e Ottaviano. In questa battaglia Bruto e Cassio perirono, mentre Orazio si diede alla fuga dopo il secondo combattimento, come confessa egli stesso in una delle sue odi, nella quale dice che si era di già trovato in alcune altre azioni molto pericolose. Una lettura innovativa[Quale?] sulla battaglia è stata proposta da Giuliano Pisani.[3]
Nel 41 a.C. tornò in Italia grazie a un'amnistia e, appresa la notizia della confisca del podere paterno, si mantenne divenendo segretario di un questore (scriba quaestorius). In questo periodo cominciò a scrivere versi, che cominciarono a dargli una certa notorietà.
Nel 38 a.C. venne presentato a Mecenate da Virgilio e Vario, probabilmente incontrati nel contesto delle scuole epicuree di Sirone, presso Napoli ed Ercolano. Dopo nove mesi Mecenate lo ammise nel suo circolo e da allora il poeta poté dedicarsi interamente alla letteratura, non si sposò mai e non ebbe figli. Già in questo periodo Orazio risulta debole di occhi, avendo contratto una congiuntivite.[4]
Mecenate gli donò nel 33 a.C. un piccolo possedimento in Sabina, le cui rovine sono ancor oggi visitabili nei pressi di Licenza (RM). Il dono fu cosa molto gradita al poeta che, in perfetta osservanza del modus vivendi predicato da Epicuro, non amava la vita cittadina.
Con la sua poesia Orazio sostenne la figura e la politica dell'imperatore Augusto, che peraltro in questo periodo lasciava una grande libertà compositiva ai suoi poeti (tendenza che sarebbe però stata invertita dopo la scomparsa di Mecenate: lo testimonia la vicenda biografica di Ovidio). Esempi di propaganda augustea sono, a ogni modo, alcune Odi e il Carmen saeculare, composto nel 17 a.C. in occasione della ricorrenza dei Ludi Saeculares.
Orazio morì il 27 novembre dell'8 a.C. e fu sepolto sul colle Esquilino, accanto al suo amico Mecenate, morto solo due mesi prima.
Considerato uno dei maggiori poeti dell'età antica, nonché maestro di eleganza stilistica e dotato di inusuale ironia, seppe affrontare le vicissitudini politiche e civili del suo tempo da placido epicureo amante dei piaceri della vita, dettando quelli che per molti sono ancora i canoni dell'ars vivendi.
(LA)
«Dum loquimur, fugerit invida |
(IT)
«Mentre parliamo, il tempo invidioso sarà già fuggito: |
(Orazio, Odi, I, 11, 7-8) |
(LA)
«Alme Sol [...] possis nihil urbe Roma visere maius.» |
(IT)
«Almo Sole [...] che tu possa contemplare nulla di più grande della città di Roma.» |
(Orazio, Carmen saeculare.) |
Si può riconoscere in molte delle occasioni, da cui Orazio trae spunto per i suoi componimenti, una funzione comunicativa: ma difficilmente essa si traduce in un mero fine encomiastico, nei confronti del circolo dei suoi potenti protettori, perché assai più spesso essa svolge la funzione di trasmettere al lettore (e ai posteri) un'esperienza concreta di socievolezza e di rapporti umani, da cui trarre un insegnamento o semplicemente una riflessione[5].
Convertitosi all'epicureismo[6], anch'egli alla ricerca di risposte sui grandi temi esistenziali, risposte che di fatto non troverà mai: il poeta sembra infatti non essere mai sfuggito all'angoscia della morte, percepita sempre come imminente. È interessante analizzare la visione che il poeta latino aveva dell'aldilà, in quanto è indubbiamente molto sincera: sebbene velata da una certa sicurezza, propria di quella "aurea mediocritas" di cui Orazio voleva essere esempio, in molteplici occasioni traspare una vena di malinconia, accompagnata da cupe note di lirismo e di elegia, che tradisce il suo reale stato interiore.
Orazio appare, a sprazzi, come quello che forse veramente era: un uomo che ha trovato nella vita il rifugio dalla morte, ma che in verità non è mai riuscito a curare del tutto la paura di essa, che preferisce fuggire piuttosto che combattere stoicamente. La sua personalità può quindi risultare, a una prima lettura, ambigua: tale ambiguità nasce dalla discordanza che talvolta si viene a creare tra l'immagine che Orazio voleva dare di sé, e la vera personalità del poeta che inevitabilmente trapela dalle righe: non a caso, come sostiene Ugo Enrico Paoli, "nulla [...] appare così difficile come penetrare nell'animo di Orazio". La rappresentazione dell'aldilà oraziano è comunque di forte stampo epicureo, e viene suggellata nel modo migliore nell'affermazione, non priva di una nota malinconica, espressa nell'Ode 7 del Libro IV (v. 16):
«Pulvis et umbra sumus» |
In questa affermazione Orazio riesce a esprimere non solo il suo punto di vista sulla morte, ma anche l'angoscia che lo investe in vita, proprio in funzione del prossimo e certo annullamento dell'esperienza terrena. Dai versi di Orazio, quando il poeta parla della morte, risulta davvero difficile cogliere una nota di serenità, di gioia: il sentimento che invece predomina e che si identifica nella reazione psicologica del poeta di fronte alla morte, è una triste accettazione di un fatto naturale. In particolare questo sentimento viene espresso nell'Ode 14 del II libro, nella quale afferma (vv. 8 -12):
«...tristi |
Questi versi ci esprimono quanto Orazio percepisse la morte cupa e fonte di grande turbamento: viene qui rappresentata come una palude (unda, parola che già nel suono anticipa il concetto che sta per essere espresso, e rafforza il simbolismo di cui è oggetto: palude=morte), a cui accosta l'aggettivo "triste" (tristi), che reca con sé anche un profondo senso di inevitabilità. La palude a cui allude Orazio è lo Stige: in questo caso, il riferimento mitologico ha valore simbolico, ed è funzionale non solo a esprimere il concetto della morte, ma anche a rendere più vivida ed espressiva la poesia. Invece scilicet (come è naturale) afferma un dato di fatto: l'inevitabilità della morte, alla quale non vi è modo di sfuggire. Questo concetto in realtà viene qui ripetuto, ma era già stato espresso all'inizio dell'ode:
«...nec pietas moram |
Inutile e vana è la religione, incapace di porre un rimedio (moram) all'incalzante vecchiaia e alla morte: questo è il punto di vista del poeta riguardo alla religione, e traduce un sentimento diffuso ed esteso a tutta la romanità del secolo. La religione è ormai incapace di dare spiegazioni sufficienti riguardo alla vita dopo la morte, il fervore religioso (pietas) non potrà salvare l'uomo dalla sua naturale condizione di mortale.
È davvero grande la differenza che corre tra l'attacco e la critica che Lucrezio aveva fatto nei confronti della religio, accusata di offuscare la ragione e di far nascere inutili tribolazioni e angosce, e questa, che suona più come una triste constatazione dell'incapacità di essere rasserenati da una religione nella quale non si riesce più a credere. Centrale nei versi 8-12 è il gerundivo enaviganda, che esprime pienamente l'inevitabilità e la certezza della morte, non senza una nota di cupa e profonda malinconia, già anticipata da tristi unda. Risulta già chiara da questi pochi versi la percezione che Orazio aveva della morte, percezione che spiega e motiva la sua scelta di vita: una vita caratterizzata dal godere del presente e delle poche gioie che la vita ci offre (identificabili principalmente nell'amicizia, nel convivio, nella pace interiore) e che ci consentono di vivere con serenità e stabilità. Orazio appare a tratti molto pessimista: la morte è sempre in agguato e la vita potrebbe finire in ogni momento; è meglio, quindi, non riporre le proprie speranze nel domani. Questa idea di brevità della vita (che ritroviamo anche in Catullo: brevis lux) è un ulteriore invito a godersi la vita il più possibile, concetto che ritroviamo in numerosi versi, come nell'Ode 11 del libro I:
«...Dum loquimur fugerit invida |
Il tempo è in una fuga perpetua, che non lascia adito a speranze future: occorre sfruttare al massimo il tempo che ci è concesso, e considerare ogni momento che ci è dato come un dono, così come afferma nell'Ode 9, del libro I (vv.14-15: "...Quem Fors dierum cumque dabit, lucro/Adpone..."); la sua concezione della fuga temporis sarà un perfetto modello per un grande poeta italiano come Francesco Petrarca, che, dopo aver letto classici come Orazio, Seneca e Agostino, lamenterà, nel Canzoniere, la caducità del tempo e la sua essenza fuggitiva in liriche come La vita fugge, et non s'arresta un'ora, molto vicina alla poetica oraziana. È chiaro dai suoi versi quanto la visione della morte condizioni in modo netto l'esperienza di vita del poeta, che ci viene vivacemente descritta dalla sua poesia: la morte non è, al contrario di quanto si crede, un evento che ci attende alla fine del nostro percorso vitale, ma è qualcosa che ci lasciamo dietro ogni giorno e dietro ogni momento, che estingue e brucia, attraverso il tempo, tutto ciò che è.
Orazio è considerato dal classicismo uno dei più importanti poeti latini, citato addirittura nell'Inferno di Dante nel Limbo, al verso 89 del Canto IV. Molte delle sue frasi sono diventate modi di dire ancora in uso: esempi sono carpe diem, nunc est bibendum e aurea mediocritas, oltre che Odi profanum vulgus, et arceo, e, recentemente, gli è stato intitolato anche un cratere sulla superficie di Mercurio.
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