L'infanzia di Ivan (in russo: Иваново детство?, traslitterato: Ivanovo detstvo) è un film del 1962 diretto da Andrej Tarkovskij. La pellicola è tratta dal racconto Ivan di Vladimir Bogomolov, ed è stata insignita del Leone d'oro al miglior film al Festival di Venezia, ex aequo con Cronaca familiare di Valerio Zurlini.
L'infanzia di Ivan | |
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Titolo originale | Иваново детство Ivanovo detstvo |
Lingua originale | russo |
Paese di produzione | Unione Sovietica |
Anno | 1962 |
Durata | 95 min |
Dati tecnici | B/N |
Genere | drammatico, guerra |
Regia | Andrej Tarkovskij |
Soggetto | Vladimir Bogomolov (racconto) |
Sceneggiatura | Vladimir Bogomolov, Michail Papava |
Casa di produzione | Mosfil'm |
Fotografia | Vadim Jusov |
Montaggio | Ljudmila Fejginova |
Effetti speciali | V. Sevostjanov, Sergeij Muchin |
Musiche | Vjačeslav Ovčinnikov |
Scenografia | Evgenij Chernjaev |
Interpreti e personaggi | |
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Doppiatori italiani | |
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In Unione Sovietica gli spettatori furono 16,7 milioni, il pubblico più vasto fatto registrare da un film di Andrej Tarkovskij[1].
Seconda guerra mondiale, fronte orientale, linea Stalin, zona del fiume Dnepr. Il dodicenne Ivan, rimasto senza famiglia (padre al fronte, forse morto, madre probabilmente uccisa), si è unito dapprima ai partigiani e poi all'esercito regolare sovietico per combattere gli invasori tedeschi. Il colonnello Grjaznov e il capitano Cholin, che si prendono cura di lui al punto che il primo potrebbe forse adottarlo al termine della guerra, sfruttano la sua abilità nel muoversi inosservato in quei luoghi paludosi per inviarlo in missioni esplorative oltre le linee nemiche. Dopo una missione particolarmente difficile, Ivan non riesce a ritornare nel luogo previsto e raggiunge invece una zona del fronte controllata dal giovane tenente Gal'cev, che stenta a credere alle spiegazioni di quel ragazzino sporco e distrutto dalla fatica, finché non accetta di contattare il comando militare e vede accorrere il sollevato Cholin.
Grjaznov decide di allontanare Ivan dal fronte e mandarlo alla scuola militare, per proteggerlo, ma lui è ben deciso a rimanere in prima linea, perché è convinto che in guerra solo i vigliacchi e gli invalidi possano sottrarsi all'impegno. Quando viene condotto verso le retrovie, scappa da solo in quelle lande desolate, devastate dai combattimenti, ma viene presto ripreso. Ivan viene coinvolto in un'ultima missione. Cholin e Gal'cev lo accompagnano attraverso il fiume, fin dov'è possibile, ma poi attendono invano il suo ritorno dall'esplorazione, mentre cade la prima neve. A guerra finita, nella Berlino occupata dalle forze sovietiche, Gal'cev, sopravvissuto ma segnato nel volto e nell'anima, negli uffici abbandonati del Reichstag trova casualmente, fra i fascicoli dei prigionieri giustiziati, anche quello di Ivan, scoprendo così che il ragazzino è stato impiccato.
Il progetto di un film tratto dal racconto di Bogomolov, tradotto in più di venti lingue, fu affidato dalla Mosfil'm ad Andrej Tarkovskij nel giugno 1961, dopo essere stato sottratto, nel dicembre precedente, alla regia del giovane Eduard Abalov, ritenuta insoddisfacente da produzione e commissioni artistiche. Molte scelte produttive del regista furono quindi dettate dalla limitatezza dei mezzi finanziari e dai tempi.[2] Ad esempio, la scelta per il ruolo di Ivan cadde su un ragazzo già notato dal regista ai tempi in cui ancora frequentava il VGIK (Istituto statale di cinematografia)[2] e che aveva interpretato un ruolo in un saggio cinematografico del suo compagno di corso Andrej Končalovskij (Giovani e colombi). Il giovane Nikolaj Burljaev si rivelò un interprete di eccezione, uno dei più talentuosi attori bambini della storia del cinema russo,[3] tanto che Andrej Tarkovskij lo vorrà nuovamente con sé, affidandogli una parte di rilievo anche in Andrej Rublëv (1966).
La sceneggiatura fu riscritta in quindici giorni. Peraltro, la sceneggiatura iniziale dovuta a Michail Papava, che aveva radicalmente trasformato il racconto di Bogomolov (Ivan, invece di morire è arrestato dai nazisti e tradotto in un campo di concentramento, da cui viene liberato dall'avanzata dell'esercito sovietico), era già stata modificata a seguito delle proteste dell'autore. In questo lavoro, come sarebbe stato per il successivo Andrej Rublëv, il regista fu assistito in modo decisivo da Končalovskij, che pure nei titoli è accreditato solo come attore.
Per quanto imposta, in qualche misura, dalla fretta, estremamente felice si rivelò la scelta, per la fotografia, di Vadim Jusov[2], che aveva già collaborato con Tarkovskij nel precedente film Il rullo compressore e il violino. Gli effetti di illuminazione degli interni in cui si possono cogliere echi dell'espressionismo tedesco,[4] l'uso di "...variazioni di angolazione e spostamenti avanti e indietro della cinepresa lunghi e di inquietante complicazione...",[1] assecondano il poetico fluire della narrazione tra l'oscura realtà della guerra e i luminosi flashback in cui Ivan ricorda e fantastica di un'infanzia sottrattagli per sempre.
Il film fu girato in gran parte nei dintorni di Kaniv, città ucraina lungo il Dnepr.
L'infanzia di Ivan anticipa di pochi mesi gli attacchi di Chruščëv all'astrattismo e al cosmopolitismo filo-occidentale di certa arte sovietica[5] e può essere considerato uno degli ultimi atti del disgelo culturale avviato in URSS nella seconda metà degli anni cinquanta.[6]
Nel suo saggio autobiografico Scolpire il tempo, il regista rivela di essersi invariabilmente scontrato con " le proteste della produzione cinematografica, ogni volta che ci sforzavamo di sostituire i collegamenti narrativi con collegamenti poetici...Tutti i bruschi passaggi del nostro film dai sogni alla realtà e viceversa... a molti apparivano scorretti".[2]
A dispetto di ciò e del contenuto morale di un soggetto che denunciava il "carattere innaturale della guerra"[2] nella rappresentazione della devastazione della personalità di un ragazzo, anche in Occidente e in particolare da parte della sinistra italiana, il film fu accusato di formalismo, calligrafismo e di essere un prodotto di " cultura decadente ", con cadute nel morboso.[5] In sua difesa si erse, contro un articolo su l'Unità del 9 ottobre 1962, Jean-Paul Sartre che, tra le altre cose, scriveva:[7]
«I suoi incubi, le sue allucinazioni (di Ivan) non hanno nulla di gratuito; restano puramente oggettive; continuiamo a vedere Ivan dall'esterno, come nelle scene "realistiche"; la realtà è che, per questo ragazzo, il mondo intero è un'allucinazione e che in questo universo questo ragazzo, mostro e martire, è un'allucinazione per gli altri... Non è una questione di espressionismo né di simbolismo, ma una determinata forma di narrazione, richiesta dal soggetto stesso...» |
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