Nella religione greca, religione etrusca e nella religione romana, Caronte , era il traghettatore dell'Ade. Come psicopompo trasportava le anime dei morti da una riva all'altra del fiume Acheronte (nella Divina Commedia) o nello Stige (per Greci, Etruschi e Romani), ma solo se i loro cadaveri avevano ricevuto i rituali onori funebri (o, in un'altra versione, se disponevano di un obolo (moneta) per pagare il viaggio); chi non li aveva (o non aveva l'obolo) era costretto a stare in eterno senza pace tra le nebbie del fiume (o, secondo alcuni autori, per cento anni).
«E 'l duca lui: "Caron, non ti crucciare: |
(Inferno III 94-96) |
Nell'antica Roma vigeva la tradizione di mettere una moneta sotto la lingua del cadavere prima della sepoltura. La tradizione rimase viva in Grecia fino ad epoche abbastanza recenti ed è probabilmente di origine antica. Qualche autore sostiene che il prezzo era di due monete, sistemate sopra gli occhi del defunto o sotto la lingua.
Nessuna anima viva è mai stata trasportata dall'altra parte, con le sole eccezioni della dea Persefone, degli eroi Enea, Teseo, Piritoo e Ercole, Odisseo, del vate Orfeo, della sibilla cumana Deifobe, di Psyché e, nella letteratura e nelle tradizioni successive a quella greca antica, di Dante Alighieri. Caronte è figlio di Erebo e Notte.
Nella religione etrusca il suo corrispettivo è Charun.
Il suo nome è stato dato al principale satellite di Plutone.
Le due opere più significative in cui s'incontra la figura di Caronte sono sicuramente l'Eneide di Virgilio e la Divina Commedia di Dante Alighieri. Alla fine del V secolo a.C., compare nella commedia Le rane di Aristofane, in cui urla insulti nei riguardi della gente che lo attornia. Nella Divina Commedia viene descritto con la barba e i capelli bianchi e con gli occhi cerchiati di rosso come il fuoco.
Viene spesso detto che Caronte trasportava le anime attraverso il fiume Stige; ciò è descritto nell'Eneide[1]. Comunque per molte fonti, incluso Pausania[2] e, in seguito, l'Inferno di Dante, il fiume era l'Acheronte.
Caronte viene citato nell'Eneide da Virgilio al libro VI, per la prima volta al v. 299.
(LA)
«Portitor has horrendus aquas et flumina servat |
(IT)
«Caronte custodisce queste acque e il fiume e, orrendo nocchiero, a cui una larga canizie invade il mento, si sbarrano gli occhi di fiamma, sordido pende dagli omeri il mantello annodato.» |
(Eneide, VI, 298-301) |
(LA)
«Ipse ratem conto subigit velisque ministrat |
(IT)
«Egli, vegliardo, ma dio di cruda e verde vecchiaia, spinge la zattera con una pertica e governa le vele e trasporta i corpi sulla barca di colore ferrigno.» |
(Eneide, VI, 302-304) |
Ritroviamo nel canto III dell'inferno delle terzine che descrivono Caronte in vari lati della sua figura:
«Ed ecco verso noi venir per nave |
(Inferno III 82-84) |
«Quinci fuor quete le lanose gote |
(Inferno III 97-99) |
«Caron dimonio, con occhi di bragia |
(Inferno III 109-111) |
Il Caronte dantesco si differenzia dalla tradizione precedente perché viene infernalizzato, ovvero perde la sua virilità e la sua forza ma diventa un semplice esecutore in negativo della volontà divina (un demonio).[senza fonte]
Il “Caronte” era lo schiavo incaricato di accertarsi della morte del gladiatore sconfitto, non graziato, dandogli il colpo finale, nel caso fosse ancora in vita. A tal fine utilizzava una mazza ed aveva il volto coperto da una maschera, rappresentante Caronte (il nocchiero mitologico che traghettava le anime dei morti da una riva all'altra del fiume Acheronte, nel regno degli Inferi). Dopo aver assolto a questo compito, recuperava il cadavere, caricandolo su un carro o su una barella, attraverso la porta dell'inferno e lo deponeva nello spoliarium, l’obitorio dell’anfiteatro, dove venivano tolti gli abiti e le armature al gladiatore morto.
Lo spoliarium era una stanza senza angoli (più facile da pulire) nella quale i caronti generalmente facevano commercio del sangue dei gladiatori, che era considerato sia amuleto che cura per debolezza ed impotenza. I caronti si coloravano la pelle con colore verdastro, tipico dei cadaveri in decomposizione. Il rituale della "mazza" è rimasto fino ai giorni nostri, quando un papa muore viene chiamato tre volte con il nome di battesimo e gli viene dato qualche colpo di martelletto alla tempia per verificare che sia morto. A partire dal 2012 il suo nome è stato spesso utilizzato in Italia per riferirsi ad ondate di calore particolarmente intense nel periodo estivo con il significato allegorico di "traghettare" nel cuore della torrida estate.
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