Il nome della rosa (The Name of the Rose) è un film del 1986 diretto da Jean-Jacques Annaud.
Il nome della rosa | |
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Titolo originale | The Name of the Rose |
Lingua originale | inglese |
Paese di produzione | Italia, Germania Ovest, Francia |
Anno | 1986 |
Durata | 126 min |
Rapporto | 1,85:1 |
Genere | thriller, orrore, epico, storico, giallo |
Regia | Jean-Jacques Annaud |
Soggetto | Umberto Eco (dal romanzo omonimo) |
Sceneggiatura | Andrew Birkin, Gérard Brach, Howard Franklin e Alain Godard |
Produttore | Bernd Eichinger, Bernd Schaefers, Franco Cristaldi, Alexandre Mnouchkine (co-produttore), Pierre Hébey (produttore associato), Herman Weigel (produttore associato) |
Produttore esecutivo | Thomas Schühly, Jake Eberts |
Casa di produzione | Cristaldi Film, Radiotelevisione Italiana, Neue Constantin Film, Zweites Deutsches Fernsehen (ZDF), Les Films Ariane, France 3 Cinéma |
Distribuzione in italiano | Columbia Pictures Italia e Cecchi Gori Group Distribuzione |
Fotografia | Tonino Delli Colli |
Montaggio | Jane Seitz |
Effetti speciali | Adriano Pischiutta |
Musiche | James Horner |
Scenografia | Dante Ferretti, Giorgio Giovannini, Rainer Schaper, Francesca Lo Schiavo |
Costumi | Gabriella Pescucci |
Trucco | Hasso von Hugo, Maurizio Silvi |
Interpreti e personaggi | |
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Doppiatori originali | |
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Doppiatori italiani | |
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Scritto da Andrew Birkin, Gérard Brach, Howard Franklin e Alain Godard, è tratto dall'omonimo romanzo di Umberto Eco del 1980.
Tramite flash-back, l'anziano frate Adso da Melk racconta di quando, ancora semplice novizio, trascorse alcuni giorni in un'abbazia a nord della penisola italiana «di cui è pietoso e saggio tacere anche il nome», assieme al suo mentore, Guglielmo da Baskerville.
Nel 1327 alcuni terribili omicidi sconvolgono un'abbazia benedettina. Nel monastero dovrà svolgersi un'importante disputa sulle tesi dell'Ordine francescano a cui è chiamato a partecipare il dotto frate inglese Guglielmo da Baskerville, che giunge all'abbazia insieme al suo giovane novizio Adso da Melk. L'abate, conoscendo il passato da inquisitore di Guglielmo, lo incarica di indagare sul delicato caso delle morti avvenute dentro il monastero, poiché molti sono convinti che siano state causate dalla mano del maligno, giustificando tale tesi con il fatto che le vittime avevano le dita e la lingua di un intenso colore nero. Guglielmo non è però convinto da questa versione e ritiene che l'assassino si trovi, in realtà, all'interno dell'abbazia.
I due frati si ritrovano in un ambiente ostile, visti con sospetto da molti monaci. Il giovane Adso incontra brevemente una ragazza che abita in un povero villaggio ai piedi del monastero, dove gli abitanti vivono nella fame e nella miseria, costretti a rifornire di cibo l'abbazia in cambio della promessa della salvezza eterna. Le indagini iniziano subito, a partire dalla morte di un giovane monaco, Adelmo il miniatore, il cui cadavere è stato ritrovato ai piedi delle alte mura dell'abbazia dopo una tempesta; Guglielmo afferma fin da subito che si tratta di suicidio. Durante le loro indagini i due fanno la conoscenza di due frati: l'anziano Jorge da Burgos, cieco e ostile alla commedia allegra, alle risate e al secondo libro della Poetica di Aristotele, e il deforme Salvatore, un monaco che parla una lingua mista tra il volgare e il latino (con parole francesi, inglesi e spagnole), rivelatosi essere stato un dolciniano, una setta eretica rispetto alla Chiesa cattolica.
Le misteriose morti continuano e questa volta a perire è Venanzio, il traduttore dal greco dello scriptorium, il cui cadavere viene trovato immerso in un recipiente contenente sangue animale. Guglielmo crede che le due morti siano collegate tra loro e scopre che la vittima, che presenta le dita e la lingua nere, aveva un rapporto di amicizia con Adelmo. Una notte, Adso ritrova la giovane ragazza del villaggio mentre si nasconde dal cellario Remigio, il quale le fornisce del cibo in cambio di favori sessuali. La ragazza si concede al novizio e i due hanno un'appassionata relazione carnale; al termine di ciò Adso rimane turbato, vista la sua posizione di religioso, ma viene consolato dal proprio maestro, il quale gli dice che certamente la cosa non dovrà ripetersi, ma che allo stesso tempo non deve vergognarsene, in quanto non ha provato nient'altro che un sentimento umano e naturale.
La vittima successiva è Berengario, un monaco in sovrappeso, aiuto bibliotecario e di chiare tendenze omosessuali, che viene ritrovato annegato nella sua vasca da bagno, anch'egli con le dita e la lingua nere. Guglielmo ritrova una nota sullo scrittoio al quale si trovava la notte prima Berengari e vi legge il numero di un libro, intuendo quindi cosa accadde: Berengario aveva approfittato della passione per i libri del giovane Adelmo per consegnargli un volume, un libro proibito che lui desiderava leggere da molto tempo, in cambio di rapporti illeciti. Adelmo aveva acconsentito, ma poi, preso dalla vergogna e dal senso di colpa, aveva vagato per l'abbazia nella notte in cui si era svolta la tempesta e aveva incontrato il traduttore dal greco, al quale aveva consegnato la nota, dopodiché si era gettato dalle mura dell'abbazia. Venanzio, volendo vedere il libro che era stato causa della sua morte, lo aveva recuperato e si era messo a leggerlo nella notte ma, improvvisamente, aveva avuto un malore fatale e suo il cadavere era stato ritrovato da Berengario che, per paura di essere incolpato, aveva trascinato il corpo e l'aveva gettato nella cisterna, dove era stato ritrovato.
Il libro era rimasto sullo scrittoio del traduttore e Berengario si era messo a leggerlo, ma i malori avevano cominciato a manifestarsi anche in lui; dopo aver riportato il libro al suo posto, per paura di essere scoperto, aveva fatto un bagno con delle foglie di cedro per alleviare il dolore, ma tutto era stato inutile ed era morto annegato. La conclusione, dunque, è che la causa delle morti sia un libro che uccide o, per meglio dire, per cui qualcuno è disposto a uccidere; le dita e la lingua nere possono essere, dunque, state causate da un avvelenamento. L'abate, tuttavia, non dà ascolto alle parole di Guglielmo e rivela di aver richiamato l'inquisitore Bernardo Gui a indagare. Guglielmo e Adso trovano un passaggio segreto per la biblioteca, accessibile solo ai bibliotecari e all'abate, e rimangono quasi imprigionati nel complesso di stanze, dal quale escono grazie ad Adso che, per non perdersi nel labirinto, aveva ingegnosamente legato un filo della sua veste a un tavolo della stanza.
Dopo l'arrivo dell'inquisitore Bernardo, la situazione in abbazia precipita: la ragazza del villaggio viene ritrovata durante la notte, insieme a Salvatore, nel fienile, con un galletto nero morto (che la ragazza aveva preso per fame) e un gatto nero, e i due vengono arrestati con l'accusa di aver praticato riti satanici in quanto, per errore, il fienile prende fuoco e Bernardo ritiene che la fanciulla sia il maligno. Salvatore viene torturato e interrogato e confessa il suo passato di dolciniano, facendo anche il nome del cellario Remigio. Nel mentre un altro frate, Severino l'erborista, viene ucciso e la colpa ricade su Remigio, che viene arrestato e accusato delle morti avvenute nel monastero.
Durante il processo contro i tre (la ragazza, il cellario e Salvatore), che culmina con la sentenza della loro condanna a morte sul rogo, Guglielmo dà la sua approvazione a eseguire il verdetto emesso da Bernardo, ma afferma anche che ciò non fermerà le morti nell'abbazia. L'inquisitore lo accusa di aver tentato di difendere la ragazza e i due eretici e gli dice che, l'indomani, si recherà ad Avignone insieme a lui per rispondere di eresia di fronte al papa. Adso, disperato per la sorte della fanciulla che ama, è risentito verso Guglielmo, che sembra interessarsi più ai libri che alle sorti della giovane.
Il giorno dopo, durante la messa, un altro frate, il bibliotecario Malachia, che è solito accompagnare il "venerabile Jorge", si sente male e muore, mostrando anch'egli le dita e la lingua nere. Bernardo, avendo assistito alla scena, ritiene che l'assassino sia Guglielmo, basandosi sulla predizione da lui fatta durante il processo, e ordina alle sue guardie di catturarlo, ma il monaco riesce a fuggire di soppiatto insieme ad Adso e i due si recano nella biblioteca. Nel frattempo la ragazza, Salvatore e Remigio vengono messi sulla pira, in attesa di essere bruciati. Guglielmo e Adso giungono all'entrata della biblioteca attraverso una porta camuffata come uno specchio e vi trovano Jorge, al quale Guglielmo chiede di poter leggere il secondo libro della Poetica di Aristotele che tratta della commedia, unica copia esistente in tutto il mondo. Jorge acconsente, ma Guglielmo si mette un guanto, poiché ha capito che le pagine del libro sono avvelenate. Il mistero è così chiarito: il colpevole delle morti è Jorge, che ha avvelenato le pagine del libro, in modo che chiunque le leggesse trovasse una morte certa. Questi, capendo di essere stato scoperto, si dà alla fuga, portando con sé il libro e venendo inseguito dai due monaci.
Guglielmo gli chiede perché abbia fatto tutto questo e Jorge rivela di aver sempre avuto in odio il libro di Aristotele, in quanto il riso, in esso trattato, uccide la paura, e senza la paura non può esserci fede in Dio: se tutti, infatti, apprendessero dal libro che è possibile ridere di tutto, anche di Dio, il mondo precipiterebbe nel caos. Preso, così, da fanatico fervore, Jorge ingoia le pagine del libro, suicidandosi, ma prima di morire ha il tempo di aggredire Adso, gettandogli la lampada che portava e bruciando anche il resto dei libri proibiti nella biblioteca. Un grosso incendio inizia a divampare in biblioteca; intanto Remigio e Salvatore vengono bruciati, mentre la ragazza viene salvata dagli abitanti del villaggio, che attaccano le guardie di Bernardo, distratte dall'incendio alla biblioteca. Mentre Guglielmo tenta disperatamente di salvare quanti più libri possibile dalle fiamme, Adso, incitato dal maestro e preoccupato per la ragazza, si precipita fuori dall'abbazia. Bernardo, in fuga con la sua carrozza, muore precipitando in un dirupo e infine Guglielmo riesce a uscire incolume dall'incendio.
L'indomani, l'abbazia è completamente bruciata. Guglielmo e Adso partono così da quel luogo ma, sulla strada, il ragazzo viene raggiunto dalla fanciulla, che lo prega di restare. Adso si accorge che il suo maestro lo osserva da lontano, perché vuole che sia lui a decidere liberamente chi seguire e, dopo un toccante addio, i due innamorati si lasciano per sempre. Mentre Guglielmo e Adso si allontanano, la voce fuori campo di quest'ultimo, nel terminare la narrazione, afferma di non essersi mai pentito di aver fatto quella scelta. Il suo maestro, in segno di rispetto, gli regalò i suoi occhiali e i due si lasciarono. Adso non seppe mai che fine avesse fatto, ma è comunque certo che Guglielmo sia morto, probabilmente a causa dell'epidemia di peste scoppiata qualche anno più tardi in Europa. Adso, comunque, anche una volta diventato uno stimato religioso, non si dimenticò mai del suo unico amore terreno, del quale tuttavia non seppe mai il nome.
Dopo 5 anni di preparazione, il film viene girato in 16 settimane fra gli studi di Cinecittà a Roma per le scene degli esterni e l'Abbazia di Eberbach in Germania per le scene degli interni. Come erroneamente si pensa, il film non fu mai girato a Castel del Monte in Puglia, ma il castello ha solo ispirato la forma della biblioteca ottagonale. Non fu neanche utilizzata Rocca Calascio in Abruzzo come abbazia, che infatti fu ricostruita a Fiano Romano come confermato da Umberto Eco[1]. Le scene finali del film furono invece girate in una valle situata tra Rocca Calascio e Santo Stefano di Sessanio, nell'Aquilano)[2].
Il budget per le riprese, che si svolsero tra l'11 novembre 1985 e il 10 marzo 1986, fu di circa 17 milioni di dollari.
Inizialmente il film doveva essere ambientato nella piemontese Sacra di San Michele (l'abbazia valsusina ispiratrice di Eco per il suo romanzo[3]) ma questa scelta venne reputata troppo dispendiosa dai produttori.[4]
Prima di Sean Connery, per il ruolo di Guglielmo vennero considerati Michael Caine, Roy Scheider, Jack Nicholson, Marlon Brando, Max von Sydow, Donald Sutherland e Robert De Niro, quest'ultimo scartato perché aveva preteso di inserire una scena dove il suo personaggio e Bernardo Gui si scontravano all'arma bianca.
Per il ruolo della ragazza venne selezionata inizialmente Mathilda May, che invece prese parte al film flop Space Vampires. La parte andò a Valentina Vargas, scelta su pressante richiesta di Christian Slater.
Salvatore Baccaro era stato scelto per il ruolo di Salvatore, ma l'improvvisa morte dell'attore, avvenuta nel 1984[5], fece propendere per Franco Franchi[6] il quale però, quando scoprì che i truccatori l'avrebbero sottoposto alla tonsura dei capelli, rifiutò la parte,[7] in seguito assegnata a un allora sconosciuto Ron Perlman.
Helmut Qualtinger, interprete di Remigio da Varagine, morì di cirrosi epatica subito dopo la fine delle riprese, a causa del peggioramento improvviso delle sue già precarie condizioni fisiche dovute all'alcolismo.[8]
Fu distribuito in anteprima negli Stati Uniti d'America il 24 settembre 1986, mentre in Italia giunse il 17 ottobre dello stesso anno.
Il film ottenne scarso successo al botteghino americano, dove conseguì un incasso di poco superiore ai 7 milioni di dollari, contro un budget di 17 milioni e mezzo.[9] Recuperò ampiamente con i guadagni in Europa, che fecero salire il ricavato complessivo a 77 milioni. In Italia fu il primo film per incassi della stagione 1986-87, superando blockbuster come Top Gun e Platoon.[10]
Con l'ascolto di 14.672.000 telespettatori per il suo primo passaggio televisivo, avvenuto su Raiuno il 5 dicembre 1988, Il nome della rosa ha detenuto il primato di pellicola cinematografica più vista in televisione in Italia per 13 anni, fino al 2001, quando è stata superata da La vita è bella.[11]
Il film, con il consenso di Umberto Eco, è stato tratto dal suo romanzo del tutto liberamente e autonomamente, tant'è che nei titoli di testa non è stato scritto "tratto dal romanzo di Umberto Eco", ma "palinsesto del romanzo di Umberto Eco". "Annaud ha deciso", dice Eco, "di definire nei titoli di testa il suo film come un palinsesto dal Nome della rosa. Un palinsesto è un manoscritto che conteneva un testo originale e che è stato grattato per scrivervi sopra un altro testo. Si tratta dunque di due testi diversi". "Ed è bene" aggiunge Eco "che ciascuno abbia la sua vita. Annaud non va in giro a fornire chiavi di lettura del mio libro e credo che ad Annaud spiacerebbe se io andassi in giro a fornire chiavi di lettura del suo film".
"Posso solo dire" aggiunge Eco, "per tranquillizzare chi fosse ossessionato dal problema, che per contratto avevo diritto a vedere il film appena finito e decidere se acconsentivo a lasciare il mio nome come autore del testo ispiratore o se lo ritiravo perché giudicavo il film inaccettabile. Il mio nome è rimasto[12] e se ne traggano le deduzioni del caso."[13]
Ne consegue che il film presenta differenze, in alcuni casi anche rilevanti, rispetto sia alla trama sia ai dialoghi che s'intrecciano nel romanzo di Eco. La differenza principale rispetto all'originale sta nella rimozione delle discussioni teoriche, troppo complesse per poter essere riportate al cinema, specialmente le scene iniziali tra Guglielmo e l'abate e tra Guglielmo e Ubertino, ridotte a pochi frammenti. Lo stesso vale per quanto riguarda il processo a Remigio e l'ultimo decisivo scontro tra Guglielmo e Jorge.
Dal film risulta dunque una visione della storia più semplice, meno inserita in un contesto culturale e volutamente complesso, dove la soluzione del giallo e le chiavi interpretative sono nascoste proprio nelle lunghe digressioni storico-filosofiche.
In modo particolare si segnalano le seguenti discrepanze:
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