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La maciara o masciara è una persona alla quale dalla cultura popolare dell'Italia meridionale vengono attribuiti poteri magici.

«Il termine masciara [ma’ʃara] (o secondo la trascrizione in ADL, Alfabeto dei dialetti lucani, mašara) significa fattucchiera. Esso è presente, esprimendo lo stesso valore semantico, in questa forma o con la vocale finale indebolita, tanto in Basilicata quanto in Puglia. Mašara deriva dal latino tardo MAGIA ‘fattura’, si conferma, quindi, l'esito fonetico atteso G + I, E > /ʃ/. Si registra, anche se raramente, il maschile maʃaru; tale sporadicità è dovuta al fatto che si trattava, e ancora oggi si tratta, di un ruolo svolto quasi sempre da donne. [1]»

Questo termine, dunque, indica una figura, propria delle culture dell'Italia meridionale, assimilabile a quella della strega che ha nel tempo affollato l'immaginario contadino italiano, e non solo.

Parlare della maciara significa restare sempre sul confine tra realtà storica e immaginario, tra documento scritto e narrazione orale, una narrazione questa che solo in parte è confluita in studi o in romanzi più o meno recenti.

Difficile distinguere la figura della maciara o masciara o ma'ara o maara, dalla maga, termine al quale pare essere etimologicamente più vicino[2], da quella della strega, della fattucchiera, tutte figure comunque accomunate dalla condizione di isolamento nelle società in cui operano, benché il loro intervento fosse e sia ricercato in numerose occasioni della vita. Gli antroponimi Masciara/Masciaro/Masciari diffusi come soprannomi in Puglia e come cognomi in tutta Italia, ma concentrati soprattutto nella provincia di Catanzaro in Calabria, ci documentano un'ampia diffusione della tradizione magica, in particolare nel Centro-Sud. Numerose sono le leggende legate a questa figura, come, ad esempio, quella della gatta masciara, radicata nell'immaginario pugliese[3].

L'antropologo Angelo Lucano Larotonda ha definito la masciara come

«colei (o colui) che compiva atti magici, depositaria di un potere non solo medico ma stregonesco, un potere capace di sciogliere e legare le forze invisibili che forse erano nell'aria e forse nella luce delle tenebre ma pilotavano le armi della malattia e della morte”. Figura intermedia tra il medico e il prete riassumeva in sé secondo la credenza popolare, il potere di queste due figure. Perciò era “in grado di dialogare con i corpi e con i loro abitatori, era capace di dare rimedio a questo o a quel malessere”. [4]

Larotonda ha, inoltre, ricostruito il dizionario della magia lucana, con numerosi riferimenti al lessico della masciara, agli oggetti d'uso magico e alle formule rituali proprie di ogni situazione che prevedesse il suo intervento. [5]


La maciara negli studi etnologici e antropologici


Il collegamento tra malattia e medicina popolare, con riferimento alle maciare è presente in Michele Gerardo Pasquarelli (1868-1924), medico attento alla medicina popolare che ha operato a Marsico Nuovo, considerato il fondatore dell'antropologia medica e psichiatrica per le sue analisi della malaria e della sifilide. Egli, in uno dei suoi primi scritti, così si esprime:

«lu mal'uocchi e l'affascine, o pure maare e fattucchiere, rappresentate di solito da vecchie che abusano di una miserevole credenza popolare e così tirano avanti la vita. [6]»

Fonte di grande interesse per l'acutezza dell'osservazione, sono i testi del Canonico Raffaele Riviello, testimone diretto della vita potentina, che nel paragrafo dedicato alla “Fattura” cita la “masciara”:

«Fattura. – Chiamavasi così ogni mala arte di magia, e poichè le donne si vantavano di saperne e di essere maestre, dicevansi masciare e fattucchiere, coi quali nomi si solevano anche indicare vecchie megere, brutte, ubbriacone e ruffiane. […]Dicevasi pure: Fac’ m’avess’ affatturà, per esprimere fascino di bellezza, di simpatia e di amore. Quelle che in tali arti di maleficio presumevano di avere il segreto, andavano di qua e di là, scroccando ed accattando, soprattutto dove riusciva facile spacciare minacce contro bambini e credule zitelle. Di loro stranezze se ne narravano tante, che mettevano addosso la paura. Visite di notte a chiese e cimiteri, ossa di morti, rospi disseccati, lucertole a due code, e tante altre cose erano mezzi di spauracchio e di fatture. Ben si sa che la fantasia dà corpo ad ombre, e prepara la via a rendere più timida la mente con voci di spettri e di funebri ricordi, tanto è vero che da noi, se si fossero trovati rospi e lucertole in sottani e cantine, si lasciavano saltare e strisciare a loro agio, credendoli, sotto quelle spoglie, anime vaganti in espiazione di peccati. Come facevano disegno di lucro ad aggirare zumpaiole e test’all’addretta (civettuole) alimentandone illusioni e speranze, specialmente se prese di mira da giovinastri e da burloni. Quando avvenivano contrasti e dispetti per trattative di matrimoni, si ricorreva alle arti di tali donne per la buona riuscita, o per voglia di vendetta. Ed allora na pupa con aghi e spilli raffigurava la persona, contro cui si faceva la fattura. Si cercava di nasconderla in qualche pertugio, o di gettarla nel pozzo della casa designata; e con tale preteso malefizio tanti dolori e sofferenze sarebbero toccati alla vittima della fattura, quanti erano gli spilli egli aghi infissi in quella pupattola di stracci. Se qualche giovine, di fresco sposata, avesse perduto il rosso delle guancie ed il brio della salute per reumi e malattie, subito si diceva: gn’ hann’ fatt’ la fattura! Perciò le mamme mettevano addosso ai loro bimbi abitini con figure di santi e qualche ritaglio di stola o di pianeta, cornicellidi oro o di corallo, zampe di mulogna (puzzola), zanne di cignali, sproni di galli annosi, un ramoscello di savina nella culla, ma colta senza passare acqua; affinchè non fossero presi d’uocchi, non venissero su rachitici e struppiari (storpii), non trasessero (entrassero) mascìare pi lu pirtuse di la mascatura (toppa) e pi li filature di la porta. Erano tutti simboli di virtù e di forze, una miscela di sacro e di profano, indicando la puzzola ed il cignale la resistenza e la difesa, il gallo la vigilanza, e le figure dei santi la fede nel cielo. Si ammalava un bambino, non ostante gli amuleti?... l’hann’piglià d’uocchi!... e subito femminelle e preti a dire divozioni e li principii di la messa! [7]»

Il riferimento all'impotenza maschile dovuta a sortilegio magico è l'elemento che caratterizza la trama narrativa del Satyricon di Petronio Arbitro [8].

Un riferimento a questo tipo di sortilegio lo troviamo nel testo di Raffaele Riviello:

«Ma la fattura caratteristica era l’attaccatura contro gli sposi. L’hann’ attaccà!... dicevasi sotto voce. Gn’ hann’ fatt’ la fattura! E la sposa parea che volesse confidare quel che sentisse di rammarico nel cuore negli occhi umidi di lagrime, mentre lo sposo se ne stava tutto vergognoso, temendo che a premio della fiacchezza fossero li per consegnargli il fuso e la conocchia per filare.

  • Fosse conseguenza di antipatia, di epa ripiena di soverchio, di nervi temporaneamente attutiti, o di altra causa fortuita e passaggiera?... No, no, ci si voleva vedere a forza la vendetta e lo zampino della fattucchiara, il nodo della mascìa, perchè
  • solo così lu zito aveva potuto starsene inerte, debole e barbogio quasi attaccato con funicelle e catene misteriose, da vedere la terra promessa assaporarene l’uva dolcissima, o gustarne la bresca e il favo di miele. Quindi scongiuri, rimedii, anche misteriosi, a sfatare e rompere l’attaccatura, ancorché lo sposo dovesse arrivare, come cavallo bolso, alla fonte della bellezza o dell’amore![7]»

La figura della masciara persiste nella memoria contemporanea lucana come socialmente molto attiva ben oltre gli anni 1950/1960, e di fatto ancora oggi invocata e consultata da parte di persone di strati sociali diversi, qualora si presentino situazioni di difficoltà ricorrenti nella vita quotidiana, attribuite al malocchio, cioè al potere dello sguardo invidioso verso una persona "diversa" per bellezza, destrezza, benessere, successo, e altro[9]. L'invidia poteva colpire le persone, gli animali e gli averi. In questi casi era richiesto l'intervento della masciara. Oggi la figura della masciara è del tutto oscurata da un rigido silenzio sociale che viene interrotto solo quando se ne parli in gruppi ristretti in circostanze mirate alla ricerca di soluzioni a situazioni psicologicamente insostenibili; in questi casi riaffiora il sapere della masciara, benché ripudiato dalla società contemporanea, con informazioni riservate su persone anziane che esercitano il potere della guarigione o della eliminazione del malocchio, detenendo formule e “ricette” ricevute per tradizione orale.

Fu proprio negli stessi anni 1950/1960 che si verificò un notevole interesse per la Basilicata, scaturito anche dal ruolo di Carlo Levi, che vi era stato confinato dal regime fascista nel 1935, prima a Grassano poi ad Aliano, in provincia di Matera; le sue osservazioni, infatti, erano confluite nel romanzo Cristo si è fermato a Eboli, pubblicato nel 1945. L'interesse per la cultura popolare lucana scaturì anche dalla lettura che della cultura popolare aveva fatto Antonio Gramsci nei suoi Quaderni del Carcere.[10] Ernesto De Martino, etnologo, tra il 1952 e il 1956, spinto anche dall'incontro con il sindaco-poeta di Tricarico, Rocco Scotellaro, organizzò una serie di spedizioni di ricerca in Basilicata, avvalendosi di un'équipe multidisciplinare e utilizzando il magnetofono e la cinepresa, documentando soprattutto il pianto rituale. L'uso di questi strumenti di documentazione audiovisivi contribuì a dare dignità alla tradizione orale, unico mezzo per conservare le tracce di culture subalterne, che ignorano la scrittura. Anche la magia fu oggetto dell'indagine di De Martino nei paesi di Albano di Lucania, Colobraro, Genzano di Lucania, Montemurro, Oppido Lucano, S. Costantino Albanese, Tricarico, Valsinni, Grottole, perché, come attesta Luigi Di Gianni nel 1958:

«Qui, più che altrove, hanno ancora suggestione le fantasie del rito magico. Hanno ancora un significato i termini fattura, malia, filtro d’amore. E si ricorre al mago, o alla fattucchiera. Anche un male fisico ha una causa sovrannaturale. [11]»

De Martino stabilisce una stretta relazione tra assenza e presenza degli strati sociali subalterni sulla scena della storia, se questo è il punto di vista della sua indagine, l'obiettivo è quello di definire un profilo unitario della vita culturale, nella quale avessero giusto spazio il patrimonio melodico, testi letterari, danze, costumanze e superstizioni, come espressione di un'unica visione del mondo adottata da certi strati sociali in condizioni determinate d'esistenza, definita metastoria. Storia degli strati alti e metastoria degli strati popolari, dunque, si intrecciano in De Martino in una nuova idea di unità del mondo culturale. La magia cerimoniale lucana entra in questo quadro con la fascinazione:

«Con questo termine si indica una condizione psichica di impedimento e di inibizione, e al tempo stesso un senso di dominazione, un essere agito da una forza altrettanto potente quanto occulta, che lascia senza margine l’autonomia della persona, la sua capacità di decisione e di scelta.»

Con il termine maciare De Martino intende le insidie subite da figure immaginarie o reali, come ad esempio lividi e graffi, come aveva osservato ad Albano di Lucania e a Colobraro.

In un'ottica religiosa affronta gli stessi temi Mircea Eliade. Entrambi gli studiosi condividono che il giudeo-cristianesimo abbia dato inizio a una storicizzazione della cultura occidentale, che richiedeva di ricostruirne e ricongiungerne le radici, ma Eliade si orientò verso le religioni cosmiche e ne indagò i segni nelle creazioni preistoriche e protostoriche che si sono stratificate e conservate nei millenni nelle culture esotiche, primitive e folkloriche, motivo per cui in esse ne cerca e ne analizza le radici e le persistenti tracce nella coscienza occidentale[12]. De Martino, invece, propende per un umanesimo etnografico, che adoperi categorie di osservazione proprie della cultura nelle sue specifiche dinamiche.

A proposito dello studioso rumeno Eliade Mircea, va sottolineato lo stretto legame delle culture meridionali italiane, in particolare la Basilicata, con la cultura rumena. Ida Valicenti, docente lucana nell'Università di Bucarest, invita a riflettere sulle similitudini tra la figura rumena della vrăjitoare e quella della masciara. Questa prospettiva di ricerca è sollecitata da quanto afferma Marina Montesano:

«Le striges descritte da Ovidio (43 a.C.-17 o 18 d.C.) nei Fasti, VI, 101 - 130, come donne-uccello, rapaci che insidiano la vita degli uomini e dissanguano i bambini aggredendoli nelle culle, sarebbero originarie della Marsica, la regione montana compresa tra i monti Sibillini e il Matese.[13]»

E ancora:

«Le regioni da cui provengono le streghe, secondo alcuni autori, sarebbero la Tracia e la Tessaglia, dove la memoria mitica ereditava probabilmente alcuni elementi sciamanici di tradizione eurasiatica. Tuttavia, anche in Italia vi sono aree avvolte in un’aura più intensa di “magia” – quali l’Etruria e la Marsica – dalle quali, secondo altri, provengono le streghe.[14]»

Vrăjitoare (1700)
Vrăjitoare (1700)

Sono questi i territori in cui sono insediati dal I millennio a.C. i Sanniti, la cui diffusione si estende fino alle aree nord-ovest della odierna Basilicata, in costante conflitto con il potere di Roma tra la metà del IV e l'inizio del III secolo a.C., ma successivamente in un altrettanto costante processo di contaminazione culturale. La penetrazione romana nella Dacia portò, dopo forti conflitti, alla concessione ai Daci della cittadinanza romana, con la Constitutio antoniniana, promulgata nel 212 d.C. da Caracalla, la diffusione della lingua e della cultura latina fu capillare, basandosi sulle relazioni famigliari che si erano nel tempo istituite tra la popolazione autoctona e i coloni e i legionari romani, diffusione consolidatasi in particolare nella odierna Romania, di cui una parte, l'allora Dobrogea, dopo l'abbandono da parte dei Romani dei territori oltre il Danubio, continuò a far parte dell'Impero romano e, poi, dell'Impero romano-orientale, per ancora almeno tre secoli. Una contaminazione di culture, quella geto-daco-romana, che ha visto protagoniste anche le arti della vrăjitoare e della masciara[15].

«Per quanto riguarda la forma rumena vrǎjitoare, essa deriva dal verbo rumeno vrǎjí che vuol dire "incantare, stregare" e siamo in presenza di una forma di origine slava[16]»


Dalla strigs alla maciara


Dalla descrizione che Raffaele Riviello fa della masciara o fattucchiera[7], emergono alcuni elementi che legano questa figura alla tradizione latina delle striges, strettamente legate al venificium e ai sacrifici umani, in particolare di bambini, e delle sagae, legate al potere divinatorio. Cicerone parla delle sagae nel De Divinatione, 62-66:

«62-XXXI - L'uso non avrebbe consacrato la parola "presagire", se a essa non corrispondesse alcuna realtà: "Me lo presagiva il cuore, uscendo di casa, che sarei venuto inutilmente." Sagire, difatti, significa aver buon fiuto; donde si chiamano sagae le vecchie fattucchiere, perché pretendono di saper molto, e "sagaci" son detti i cani. Perciò chi ha la sensazione (sagit) di qualcosa prima che accada, si dice che "pre-sagisce", ossia sente in anticipo il futuro. 66 - C'è dunque nelle anime una capacità di presagire infusa dall'esterno e penetrata per opera della divinità. Se questa capacità s'infiamma con più veemenza, si chiama "follìa profetica", quando l'anima svincolatasi dal corpo è eccitata da un impulso divino.»

e porta Cassandra come esempio di follìa che predice il vero:

«(Ecuba) "Ma come mai, d'un tratto, sei apparsa in preda al furore, con gli occhi fiammeggianti? Dov'è più quella saggia, virginale modestia di poco prima?" (Cassandra): Madre mia, di gran lunga la migliore donna delle nobili donne troiane, io sono assalita da deliri profetici, e Apollo mi istiga a dire, folle, contro la mia volontà, il futuro. Mi vergogno dinanzi alle fanciulle mie coetanee; ho rossore di ciò che faccio perché disonoro mio padre, uomo eccelso; di te, madre mia, ho compassione; di me stessa mi dolgo. Tu hai partorito a Priamo figli eccellenti, tranne me: è questo che mi addolora: che io sia di danno, essi di aiuto, io riottosa, essi obbedienti! Eccola, eccola la torcia avvolta nel sangue e nelle fiamme! Per molti anni rimase occulta. Cittadini, recate soccorso e spegnetela! E già nel vasto mare una flotta veloce vien costruita; essa trascina uno sciame di sciagure; arriverà, feroce, un esercito su navi volanti con le vele, riempirà le nostre spiagge" [17]»

E Cicerone osserva:

«Non è più Cassandra che parla, ma il dio che è penetrato in un corpo umano.»

Ciò che interessa a Cicerone in questa occasione è sottolineare la corrispondenza tra quanto tramanda la poesia di Ennio nell'Alexander e quanto documentato dal racconto di eventi reali da parte di personaggi, come Gaio Coponio, da lui considerati eminenti per saggezza e cultura.

Il percorso delle sagae si collega a quello delle Sibille, accettate e onorate in quanto attraverso i loro vaticini parla Apollo, rifiutate come Cassandra, quando si ribellano al potere del dio.

Una fonte lucana, benché il poeta definisse Venosa, suo luogo di nascita, anceps tra Puglia e Lucania, è la poesia di Quinto Orazio Flacco, che in più d'uno dei suoi testi poetici, Sermones, VIII, Epodi, III, V, XVII, ha descritto i terribili riti di Canidia, esempio di una stregoneria sanguinaria, come quella attribuita alla strigs. [18]

Il canonico Riviello non si sofferma sugli aspetti fisici della masciara, ma ne indica alcuni “poteri” e strumenti, che rimandano al mondo animale, piuttosto che agli uccelli, come lo sono le striges latine, riferisce, come si è detto, di relazioni con rospi e lucertole, che avverte essere abitanti abbastanza frequenti dei sottani (abitazioni a livello strada o interrati di edifici a più piani, detti soprani, oggi usati come depositi o restaurati con usi commerciali, in cui si abitava ancora a Potenza in casi isolati nella prima metà del Novecento), animali nell'immaginario popolare considerati anime di morti. Il volo notturno in cimiteri[19] e l'uso di ossa di morti come mezzi di “spauracchio e di fatture” sono elementi comuni alle striges e alle masciare.


La persecuzione


Strega bruciata sul rogo a Willisau (Svizzera), 1447
Strega bruciata sul rogo a Willisau (Svizzera), 1447

Elemento che accomuna le masciare alle diverse figure qui citate è lo stigma sociale che le spingeva ad abitare in luoghi isolati[20], aumentando così l'alone di mistero che le circondava. Questo isolamento fisico, attestato anche in tempi relativamente recenti, è da collegare alla convinzione che le streghe, comunque le si voglia chiamare, siano portatrici di un “potere” che la cultura dominante ha sempre inteso governare con la proibizione dei riti e con dure condanne, facendo prevalere nella loro identità le caratteristiche delle striges piuttosto che quelle delle sagae.

La caccia alle streghe è la punta più violenta dello stigma sociale. Il primo accenno storico della caccia alle streghe si ha nel II millennio a.C. con il Codice di Hammurabi che condanna i maghi e gli stregoni, anche se non per il ruolo che esercitavano, ma per i danni che potevano causare alle persone.

Nella Grecia antica, nel 338 a.C. circa, Teoride di Lemno fu giustiziata insieme con i suoi figli perché accusata di aver gettato incantesimi. [21]

Le figure di Circe e di Medea, nella tradizione letteraria greca antica, attengono a questa sfera di visione negativa dei poteri delle donne, in cui entrano in gioco, trasformazioni in animali, veleni e bambini come vittime.

La storia della interpretazione di Medea da Euripide a Christa Wolf è sintesi della valutazione negativa, e del tentativo del suo riscatto, della donna che possiede il dono della preveggenza e che è detentrice di poteri che non rispettano le regole della cultura dominante.

Nel Satyricum di Petronio Arbitro sono strettamente collegati cadaveri di bambini e le lotte tra le striges e chi volesse metterle in fuga, lotte che producevano lividi e graffi sul corpo dell'antagonista[22], fenomeni osservati da De Martino ad Albano di Lucania e Colobraro. [23] I veneficia attribuiti alle striges erano proibiti nella Roma antica da una specifica legislazione, come la lex Cornelia de sicariis et veneficiis, emanata da Lucio Cornelio Silla nell'81 a.C. Essa condannava chiunque preparasse e utilizzasse veleni contro persone, in particolare venivano colpite le donne, non pochi, infatti, furono in epoca romana gli episodi di accuse contro di loro e di condanne a morte. [24]

Momento di passaggio e nello stesso tempo di saldatura tra la visione pagana e quella cristiana della magia, si ha con la nascita della demonologia cristiana, alle cui origini è Agostino di Ippona (395-430), che ai demoni dedica il De divinatione daemonum e passi del De civitate Dei. Agostino è il punto di connessione con la magia pagana rappresentata nei Metamorphoseon libri XI da Apuleio, di cui il filosofo cristiano critica, in particolare, il De deo Socratis. [25]

L'uccisione di Ipazia da parte di una folla inferocita, nel 415 d.C., conferma come la figura di una donna, una matematica erede della tradizione scientifica greca, potesse per questa sua identità, essere ritenuta capace di arti magiche.

Benché il Canon episcopi definisse la credenza popolare delle streghe frutto di superstizione, la caccia a esse tra il 1450 al 1750, nell'era della Riforma protestante, della Controriforma e della guerra dei trent'anni, soprattutto sotto la spinta del Malleus maleficarum[26] (1486) di Heinrich Krämer (detto Institor, 1430 ca.-1505) produsse tra le 35 000 e le 100 000 vittime, le ultime esecuzioni per stregoneria in Europa si tennero nel XVIII secolo. Nell'Africa sub sahariana, nella Papua Nuova Guinea, in Arabia Saudita e nel Camerun sono tutt'oggi in vigore leggi contro l'arte magica.

Una lettura della caccia alle streghe come caccia alle donne detentrici di una qualche forma di potere, anche solo culturale, e di esercizio di libera scelta è portata avanti da Silvia Federici, che nell'esaminare le cause di quella che definisce “guerra in atto contro le donne”, ne esamina gli aspetti della violenza domestica e sessuale, come parte del tentativo odierno di ricondurre il ruolo della donna alla riproduzione, per rafforzare la società neoliberista. Caccia alle streghe, guerra alle donne è, dunque, un'indagine sulle cause di questa nuova violenza, ma anche un richiamo alle donne a reagire, partendo dalla memoria del passato come arma per le loro battaglie a venire. [27]

Un interessante episodio che riguarda la memoria del passato da cui osservare e interpretare la condizione della donna, episodio che, per altro, attesta il persistere in tempi relativamente recenti della “caccia alle streghe” come caccia a donne di potere in qualunque misura e ambito, è descritto nell'edizione del 19 dicembre 1912 del Giornale di Basilicata, che riporta la nota di una corrispondente da Napoli, che si firma Lia, dal titolo Prete e maestra in armi, nella rubrica Motivi di cronaca.

La redattrice scrive:

«[…]Il prete e la maestra nemici. Perché, forse, domanderà il pubblico, non s’insegnava il catechismo nelle classi laiche; perché i bimbi erano mal tenuti e mal diretti e la loro educazione e la loro istruzione erano trascurate o abolite? Affatto! La scuola della signorina d'Alessandro era una scuola moderna e perfetta, gli scolari studiavano e passavano agli esami con lodevoli medie. Non sapevano la tortura delle bocciature e delle ripetizioni. […]il buon risultato non era dovuto né alla buona volontà dei discepoli, né al discernimento della maestra, sebbene al favore che godeva l'insegnante nelle alte sfere, per la sua liberalità religiosa e sentimentale.[…] Il mite prete suggerì: cingere la casa della maestra di popolo sdegnato, imporre alla maestra l’abdicazione e la fuga, manomettere la sua piccola proprietà. Invano i paesani protestarono e dissero che nelle classi era un'uguaglianza consolatrice, una medesima protezione pel ben vestito e pel mal vestito, una stessa considerazione.[…] Si ripetette, con medioevale ostinazione : — Ecco l’eretica, la strega! […] Ma dalla piccola rivoluzione, fra le due visioni — il poco cristiano parroco ammanettato e la biblioteca della maestra distrutta in un rogo sulla piazza — balza una terza: l'ammirazione per la martire capace di opporsi non all'idealità religiosa, ma alla prepotente camorra del pretuncolo senza sacerdozio![28]»


Note


  1. Comunicazione di Patrizia Del Puente, Docente di glottologia all'Università degli Studi della Basilicata, ideatrice e curatrice del progetto A.L.Ba, Atlante linguistico della Basilicata
  2. Magara, Strega. Dal lat. magus (sacerdote persiano) tratto dal greco mágos a sua volta derivato dal persiano magush. Il suffisso -ra si può spiegare con la sovrapposizione di "megera" (una delle tre Furie). Da WIKI Dizionario etimologico del Basso Cilento
  3. Le Masciàre – Streghe dal Sud Italia, 4 settembre 2017
  4. A. L. Larotonda, La masciara indaffarata Lessico della maga lucana, Osanna edizioni, 2017 pagg. 91-93
  5. ibidem
  6. M. G. Pasquarelli, in Proverbi nel dialetto di Marsico nuovo, Arnaldo Forni editore, 1981, tratto da Archivio per lo studio delle tradizioni popolari (1892 - !897), pag. 79
  7. R. Riviello, Ricordi e note su Costumanze, vita e pregiudizi del popolo potentino, Tipografia editrice Garramone e Marchesiello 1893, ristampa anastatica Nicola Bruno Editore, Potenza, 2002 capitolo X.
  8. Satyricon, 21.7; 16–26.6
  9. A. L. Larotonda, La masciara indaffarata Lessico della maga lucana, Osanna edizioni, 2017, pag. 101
  10. A. Gramsci, Quaderni dal carcere, quaderno 27, vol. III, p. 2311, dove si legge:
    «Il folklore può esser considerato come la “«concezione del mondo e della vita», implicita in grande misura, di determinati strati (determinati nel tempo e nello spazio) della società, in contrapposizione (anch’essa per lo più implicita, meccanica, oggettiva) con le concezioni del mondo «ufficiali»[…] che si sono succedute nello sviluppo storico»
  11. L. Di Gianni, “Magia lucana”, 1958 : http://www.teche.rai.it/1984/03/magia-lucana-un-documentario-di-luigi-di-gianni/
  12. M. Eliade, Da Zolmoxis a Gengis – Kan, traduzione di Alberto Sobrero, Ubaldini editore, 1975
  13. M. Montesano, Streghe: Le origini, il mito, la storia (Italian Edition), De Vecchi editore, edizione cartacea 1996, edizione digitale 2020
  14. M. Montesano, Streghe: Le origini, il mito, la storia (Italian Edition), De Vecchi editore, edizione cartacea 1996, edizione digitale 2020
  15. Un quadro di queste relazioni è in Effemme, l'almanacco di Fantasy magazin, n.4 / Anno 2 / Autunno 2011, a cura di Emanuele Manco
  16. Comunicazione di Patrizia Del Puente, Docente di glottologia nell'Università degli Studi della Basilicata, ideatrice e curatrice del progetto A.L.Ba, Atlante linguistico della Basilicata
  17. Ennio, Quinto, Alexander, II secolo a.C.
  18. Orazio, Epodi, V, traduzione di Germano Zanghieri, accesso 5 marzo 2021
  19. Al volo delle streghe si rifà il romanzo, basato su fonti orali e su memorie manoscritte, Vito ballava con le streghe, di Mimmo Sammartino, Sellerio 2004
  20. A. L. Larotonda, op. cit.
  21. Theoris of Lemnon and the criminalization of magic in fourth-century Athens 2001, in Claasical Quarterly, 51.2. pag. 477-493, 25 febbraio 2021
  22. Petronio Arbitro, Satyricon, 63
  23. vedi nota n.
  24. A. Mastrocinque (a cura di), Manuale di storia romana di Arnaldo Momigliano, UTET Università; 2 edizione 2016
  25. M. Montesano, Streghe: Le origini, il mito, la storia, (Italian Edition), De Vecchi editore, edizione cartacea 1996, edizione digitale 2020
  26. (ossia Il martello delle malefiche, generalmente tradotto come streghe) rif. Montesano, op. cit.
  27. S. Federici, Caccia alle streghe, guerra alle donne, traduzione di Shendi Veli, Nero editions collana Not 2020
  28. Giornale di Basilicata_1912_12_19_034_00002.pdf

Bibliografia



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